Il custode

Eravamo coetanei; abitavamo in due appartamenti delle case popolari, gli unici condomini del paese che osassero un accenno di verticalità, là dove tutto era disteso sulla pianura, amplificandone la monotonia. Io ero nato dentro quella terra umida, Gio era l’innesto che a dieci anni sembrava aver bene attecchito, tanto da essere diventato uno di noi, e le sue ginocchia sbucciate nel campetto di cemento dell’oratorio erano la traccia tangibile della nostra comunanza. Ero diventato in fretta il suo migliore amico per via dei tardi pomeriggi d’estate passati sul marciapiede a guardare le corriere arrivare, le persone scendere; misuravamo le gambe delle ragazze con le spanne delle mani e un occhio chiuso, inquadrandole da lontano. In fondo i legami fraterni sono quelli che ti fanno sentire dalla stessa parte e noi stavamo seduti sullo stesso lato della provinciale che smezzava il paese. Passavamo lunghi periodi a vederci tutti i giorni, poi capitava che Gio scomparisse, soprattutto quando cominciavano le nebbie di novembre. Se andavo a cercarlo a casa, sua madre diceva che era stanco, doveva riposare; eppure non capivo davvero cosa stesse facendo dietro quella porta di legno chiaro. Una volta avevo provato a insistere, potevo mostrargli i compiti; ma nemmeno i doveri scolastici mi avevano garantito l’ingresso. Era un’assenza di cui non riuscivo a vedere i confini. E di tali confini non seppi niente per molto tempo, finché Gio non ebbe bisogno di me.

Avevamo vent’anni, e le tante vite immaginate erano diventate possibilità tra cui scegliere. Io avevo deciso per medicina, Gio invece prendeva tempo, intanto si era messo con Sonia che veniva a vedere le nostre partite di calcetto sul cemento e urlava più di tutte le altre. Credo che dei due fosse Gio a essere davvero innamorato; spesso le storie dei vent’anni vivono di squilibri.

«Aiutami» mi disse una sera che eravamo seduti sul marciapiede. Era ottobre, e sulla linea dei campi era arrivata la prima foschia.

Mi chiese di coprirlo con Sonia, nel caso fosse scomparso.

«Le sto sui coglioni», dissi, facendo scendere un rumoroso sorso di Coca lungo la gola.

«Non è vero. E comunque Sonia non ti piace, ma per me è importante». Aveva nella voce l’imbarazzo dei sentimenti dichiarati.

«L’amore ti toglie, ciò che l’amore ti dà».

«E questa chi l’ha detta? »

«Io», gli sorrisi, mostrando i denti in fila.

«Dovresti provare a innamorarti ogni tanto»; mi parlò senza guardarmi.

«Ma dove vai sempre? »

«In letargo».

Non sopportavo mi prendesse per il culo. Era una cosa seria, alla nostra amicizia occorreva una prova. Mi alzai pulendomi i pantaloni con pacche vigorose e andai a casa. Gio non mi fermò.

Avremmo dovuto incontrarci dopo cena al bar dell’oratorio. Trasmettevano la Coppa Italia su Rai 1, Sampdoria-Bologna: avremmo bevuto una birra e fumato una sigaretta sul cemento, aspettando l’inizio del secondo tempo, ma io non uscii. Rimasi sdraiato nel letto con gli occhi al soffitto. Pensavo a Lolla, la testuggine della nonna, che tra fine ottobre e novembre si nascondeva per ricomparire in primavera. Gli smuovevamo la terra in un angolo riparato del giardino, così da aiutarla a trovare il suo rifugio. Era quasi mezzanotte quando sentii picchiettare sul vetro della finestra di camera mia. Trovai un quaderno grande un palmo sul davanzale: era di Gio. Mi era capitato di vederglielo. Erano date ed elenchi: mal di testa, sibilo nelle orecchie, brividi, tosse secca, gambe di legno, paura… date ed elenchi. Ogni tanto una pagina bianca e giorni saltati. Mi resi conto che corrispondevano alle sue assenze.

Mi raccontò tutto, quando glielo riportai, il giorno dopo.

«Uno dei primi medici mi ha detto di annotare i sintomi, non è servito ma continuo a farlo. Mi addormento come se andassi in letargo: il battito rallenta, la temperatura scende, sembro morto, dice mia mamma. La prima volta avevo otto anni. Può durare due giorni, una settimana, sono arrivato anche a dormire venti giorni di fila. Ho fatto esami, visite, non trovano niente, tumori, disfunzioni metaboliche, niente. Non sanno quando mi addormenterò di nuovo, o se mi risveglierò, ma non ho paura del sonno: ho paura del ritorno».

Mentre parlava, pensavo a Lolla che una primavera non si era più svegliata.

«Provo a cercare un medico bravo».

«No, lasciami stare». La sua era una supplica, ma la voce ferma e forte me lo fece sembrare un ordine.

«Ma dove vai? », la stessa domanda del giorno prima mi era scivolata sulla lingua, ma aveva dimensioni diverse, una diversa superficie.

«Sogno luoghi mai visti, tempi mai conosciuti. Sono ovunque e da nessuna parte. In qualche modo sto bene».

Mentre lo ascoltavo, avevo voglia di abbracciarlo o di scappare: era come lo conoscessi per la prima volta.

«Vuoi?»

Fece due tiri dalla mia sigaretta.

Si addormentò un paio di settimane dopo, e stavolta sua madre mi permise di entrare. Era rannicchiato sul fianco sinistro, i riccioli sul cuscino erano l’unica parte di lui a conservare una parvenza di moto. Andai a trovarlo ogni sera, avevo il privilegio di poterlo guardare dormire. A Sonia raccontai che era dovuto partire in fretta per problemi di famiglia, lei gli scriveva messaggi sul cellulare a cui rispondevo io. Quando si svegliò, due settimane dopo, aveva la pelle più bianca e gli occhi azzurrissimi.

Da allora non ho mai smesso di aspettarlo, anche adesso che abbiamo dieci anni di più e abito a Lodi, zona laghi, dietro l’ospedale dove lavoro. Gio va e viene sempre più spesso, i letarghi sono più lunghi, forse un giorno rimarrà dall’altra parte, nel mondo confinante. Vive da solo da quando sua madre è morta, sempre nelle case popolari che abitavamo da bambini, ma una volta a settimana torno al paese e ci mettiamo a guardare le ragazze dal marciapiede; il cemento ci sembra più scomodo di prima, come se i nostri corpi adulti cominciassero a irrigidirsi. Quando non lo sento per qualche giorno vado a casa sua – mi ha lasciato le chiavi – e so già che lo troverò addormentato. Se non è a letto, lo sistemo, il suo corpo è leggero, lo appoggio sul lato sinistro come gli piace e veglio i suoi sonni. L’ultima volta è stata più lunga di tutte le altre, 31 giorni di sonno, 31 giorni di veglia, ho chiesto un’aspettativa al lavoro e sono rimasto con lui: avevo paura non tornasse.

«C’erano donne con gambe lunghissime», mi ha detto quando mi ha guardato dagli occhi azzurrissimi.

Era di nuovo a casa.

I custodi servono a tenere le luci accese e il fuoco caldo, e io, ora l’ho capito, sono un custode.

Un racconto di Gaia Gentili

Illustrazione di Angelo Policicchio

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