Conseguenze

Quando si svegliò, Michele si accorse di avere le mani appoggiate sul basso ventre, all’altezza dell’intestino; si accorse anche di sentire un dolore, all’altezza dell’intestino. Una sensazione di nausea diffusa e persistente. La sera aveva mangiato pollo, niente di elaborato o poco digeribile, e aveva aspettato almeno un paio d’ore prima di coricarsi.

Accese l’abat-jour e guardò l’orologio: era ancora presto per alzarsi. Pensò che la cena potesse avergli causato quel fastidio, ma non aveva notato nessun odore sospetto mentre attendeva di cucinarla e al tatto la carne non gli era sembrata più collosa di quanto non fosse di solito.

Ripercorse a piccole tappe la giornata appena trascorsa, a partire dal pranzo – lo ritenne un intervallo di tempo ampio a sufficienza per scoprire che cosa avesse provocato la nausea. Rimase supino, con le mani a tastarsi il ventre e a spingere in maniera continua e circolare: dal retto fino al fegato, per raggiungere l’ombelico e scendere di nuovo fino al retto. L’indice e il medio della mano destra premevano sulla pancia con quasi due intere falangi, senza mai staccarsi dalla pelle. Non c’era stato nessun movimento d’aria evidente, il percorso sembrava libero al tatto.

Michele valutò con cautela le sue azioni e, sebbene avesse riconosciuto quel tipo di dolore come familiare, non aveva fatto nulla di ciò che di solito, in passato, lo scatenava. Associava la nausea intestinale a una certa sua vecchia abitudine, una sorta di crescente disagio – o più banalmente una dipendenza – che si era costretto ad abbandonare perché non proprio salutare. Il pensiero che si trattasse di una causa così lontana nel tempo lo incuriosiva e turbava più del non averne trovata, nelle ultime ore, un’altra quantomeno plausibile e differente. Continuò a tastarsi la pancia in maniera più delicata, soffermandosi sul fegato, alla bocca dello stomaco, sul pancreas nascosto sotto le costole. Esaminò la propria postura: distese le gambe, divaricandole di una trentina di centimetri, tirò le spalle dritte aderenti al materasso e posizionò le mani parallele, una sullo sterno e l’altra sull’addome; e intanto la testa cedeva e Michele schiacciava una guancia contro la federa, come in ascolto.

Provò a mettere insieme quello che sapeva della nausea intestinale e fece un’operazione di avvicinamento. Dal pranzo del giorno prima fino alla motivazione usuale e ormai remota che la provocava. Radunò tutti gli elementi a sua disposizione e si rese conto che, per esclusione, le uniche ore che non aveva considerato erano quelle del sonno, quando oltretutto la nausea era comparsa. Il risultato fu che, se la nausea era un sintomo della sua vecchia abitudine, Michele vi si doveva essere lasciato andare mentre dormiva. Era una risposta stravagante, ma non meno accettabile del fatto che nella notte la febbre si abbassi o l’ubriacatura si smaltisca, o una persona muoia.

Doveva aver fatto in sogno ciò a cui aveva rinunciato da lucido. Se la notte e il giorno stanno, entrambi, nel tempo, dormire e sognare sono azioni tanto quanto cantare e mangiare, e hanno delle conseguenze, pensò – pur ammettendo che alcuni tipi di incursioni notturne si potevano forse scusare. Ipotizzò che la differenza tra la veglia e il sonno stesse in lui; che nella veglia fosse la sua persona a muoversi su e giù per le strade, nel mondo e che, invece, nel sonno le cose si muovessero dentro di lui, che fosse lui lo spazio, una specie di set, di oggettoanimato attraversato da tanti esseri e paesaggi in miniatura. Questa doveva essere la differenza tra fare le cose e sognarle, o persino immaginarle. L’inventore della televisione probabilmente aveva avuto un’intuizione simile. Da bambino, Michele si chiedeva che razza di persone fossero quelle così piccole da stare dentro una scatola, senza nemmeno il bisogno di essere scartate come un regalo; come se la scatola fosse, a suo modo, essenziale.

Per pochi secondi si sentì alleggerito dall’aver ridotto la distanza tra causa ed effetto. Pochi secondi per accorgersi che la sua scoperta significava l’assenza di una qualsiasi scadenza o tregua; l’impossibilità di divenire estraneo alle proprie azioni, o alle loro conseguenze. Veglia e sogno stavano egualmente nella realtà. Niente è estraneo nei sogni, si disse, e quanto se ne abbia coscienza dà la misura. La frase rimase sospesa: non riusciva a capire di cosa, avrebbe voluto un suggerimento. Nella mente gli comparve tempestiva la parola dio, ma era tanto scontata come risposta che scosse la testa sul cuscino. Troppo comodo collegare la coscienza al divino, quasi quanto pensare che anche lui, Michele, fosse una conseguenza e non una creatura di dio. Si sarebbe messo a ridere da solo, se la nausea non gli avesse ricordato, con un colpo all’intestino, profondo e più lontano, che stava ancora lì.

Mancavano dieci minuti al suono della sveglia.

Un racconto di Federica Patera

Illustrazione di Alessandra Luciani

Lascia un commento