Li riconosco tutti

Gianmarco odora sempre del primo odore. Quello che gli ho sentito addosso il primo giorno della prima elementare. Borsellino di plastica nuova, punta dei colori a spirito, disinfettante dei banchi e bucato Sole.

Lo lascio davanti al portone del suo studio, in via Massari civico 7. Prima di scendere dall’auto raccoglie la cartellina di pelle dal tappetino e si gira per salutarmi. Nella stessa frazione di tempo io mi sporgo verso di lui, ma sono più alto e finisco per sfiorargli la tempia sinistra con le labbra. Non si sposta, spinge un poco contro la mia pelle, poi scende.

A casa tiro fuori la verdura dai sacchetti di carta marrone, la lascio a mollo con l’Amuchina mentre vado a spogliarmi in camera da letto. La nostra camera da letto con un letto senza testata. Ogni terzo weekend del mese pensiamo di andare a sceglierne una per poi rimandare a quello successivo. Nel frattempo, ho inchiodato al muro decine di polaroid che ci ritraggono in una composizione geometrica, che se la guardi da lontano è solo un rettangolo nero allungato. Come una nube ancorata ai cuscini bianco latte, ai sogni notturni. Ma se ti avvicini quelli siamo noi. In tutti gli sguardi, in ogni foto.

Uno degli scatti ritrae Gianmarco che tiene un salmone di dieci chili dalla coda. Il braccio teso, con le vene in risalto per lo sforzo, lontano il più possibile dal resto del corpo, lo sguardo terrorizzato. Mio padre ama la pesca. Lui ama me.

Afferro il suo cuscino. Ancora, borsellino di plastica nuova, punta dei colori a spirito, disinfettante dei banchi e bucato Sole. Lo sprimaccio con forza, lo annuso di nuovo. Lo rimetto a posto.

Infilo la tuta e vado a sciacquare le verdure. Cambio l’acqua tre volte, poi inizio a ridurle in cubetti tutti uguali sul tagliere. Le melanzane mi tingono le dita di nero. Dopo aver messo una padella a scaldare per qualche secondo, ci verso dentro un filo d’acqua e poi i cubetti. A Gianmarco non piace il sapore del soffritto, dice che l’unto cancella il suono della natura. Il suono della natura. Per lui ogni cosa suona. Per me odora. Il volume dei vegetali lentamente perde acqua e diminuisce. Abbasso la fiamma e la casa si scalda. Si riempie di quell’estate trascorsa a Vieste, in cui abbiamo imparato a mangiare l’insalata di pomodori con le cipolle fresche lunghe e i peperoni verdi crudi, a listarelle. Dalla finestra entra una finta luce di luglio. Rassicurante e molle.

Metto in ordine le carte che ha lasciato sul piccolo scrittoio attaccato alla parete, proprio sotto alla finestra. La tenda sintetica comprata da Ikea striscia contro il bordo di legno producendo una nota sottile, acuta, da flauto traverso, che a Gianmarco piacerebbe tanto. Lo immagino in piedi, al centro del soggiorno, con gli occhi chiusi e i piedi scalzi, ad assorbire quella bellezza piccola che riesce a riconoscere ovunque. Un po’ ho imparato anche io, ma guidato da lui. A volte mi basta seguire il suo sguardo e capire l’origine della sua improvvisa immobilità, per scorgerla. Ecco cosa gli devo. Ecco. Ci penso da giorni, da quando siamo usciti da quel laboratorio di analisi. Ecco cosa gli devo. Questo.

Gianmarco ha una scrittura che parte grande e poi si rimpicciolisce man mano che la visione si fa più chiara. I fogli su cui prende appunti per i processi penali, le difese, le domande, sono tutti così: un titolo in alto in stampatello, sottolineato, una parte centrale ancora leggibile, e le ultime righe con la soluzione quasi invisibili, come se volesse nasconderle anche a se stesso.

Quando Gianmarco rientra sono seduto sul divano con un bicchiere di rosso in mano. Lascia le scarpe e la valigetta all’ingresso. Lo sento sfilarsi la giacca e avvicinarsi. Mi appoggia una mano sulla nuca. È bollente, come sempre.

«Che bel suono, che hai cucinato?» Si piega e appoggia le labbra sulle mie.

Borsellino di plastica nuova, punta dei colori a spirito, disinfettante dei banchi e bucato Sole. E qualcos’altro. Una punta acida, come di marcio. Lo stesso odore di quando apri il frigorifero dopo essere stato via per qualche giorno. A Gianmarco la paura gli cambia l’odore. È così da sempre, è così da quel primo giorno di scuola in prima elementare. Non riesco a chiedergli dei risultati, e gli chiedo com’è andata la giornata.

«Mah, è stata stramba. È passata la Signora Licciardi. Te la ricordi, sì?»

Scavalca la spalliera del divano e si lascia cadere accanto a me. Ritiro le gambe per fargli posto, le incrocio stando attento a non rovesciare il vino e gli passo il bicchiere.

«Raccontami.»

Inizia a strisciare la punta delle dita dei piedi contro i miei.

«Vuole ancora fare causa ai De Bonis per quel volpino di merda.»

«Di merda.»

«Sì, hai ragione. In realtà lo adoro. È che sono stanco.»

«Vieni qui.»

Appoggia il bicchiere per terra e si lascia abbracciare.

Ancora, come un’onda, borsellino di plastica nuova, punta dei colori a spirito, disinfettante dei banchi e bucato Sole. E la punta acida, come di marcio.

Lo trattengo e nascondo il naso sotto il lobo del suo orecchio destro. Ispiro più forte, passo in rassegna di nuovo tutti i suoi odori.

Borsellino di plastica nuova. Punta dei colori a spirito. Disinfettante dei banchi. Bucato Sole. Punta acida.

È così, quindi.

Mangiamo la quiche, Gianmarco mastica piano. Infilo i piatti in lavastoviglie e lui va a farsi una doccia. Mentre lo aspetto sdraiato sulla mia metà di letto leggo la stessa pagina sei volte. Quando esce, il suo corpo è quello di sempre. Scosta le lenzuola e si infila dentro. Il corpo è lo stesso, ma Gianmarco mi sfugge: gli odori si cancellano, coperti dalle scie chimiche del bagnoschiuma. Mela verde, biancospino, legnetti fruttati. Appoggio il libro sul comodino, spengo la luce. Glielo chiedo domani.

Un racconto di Sara Maria Serafini

Illustrazione di Alessandra Luciani

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