Si. Do. Fa.

Mio padre mi diceva sempre che dovevo essere preparato. 

Vai, Filippo, siediti in fondo, osserva e preparati.

E io osservavo, seduto sul tavolaccio di legno, con la paura che mi si conficcassero le schegge nelle mani. Non mettere le mani sul tavolo, mi dicevo, stai attento, ci pensavo per tutto il tempo. Ma poi lui appendeva le grandi campane alle funi. 

Tre rintocchi lenti, precisi. Separati l’uno dall’altro. Prima da un secondo, poi da due, poi da tre. Le faceva suonare, mio padre, per provarle. E poi ricominciava. Sempre i soliti rintocchi, tristi. Campane a morto.

Diceva che era da lì che si capiva se la campana era venuta bene, se suonava nel modo giusto. A farle scampanare allegre sono bravi tutti, Filippo. La felicità è semplice, diceva, ma in certi momenti tocca essere solenni, lenti, tocca scavare nel modo giusto. È durante un funerale che devono suonare al meglio, perché quello è un suono che non dimentichi più. Nessuna variazione, Filippo, il suono è sempre scandito nello stesso modo. Si. Do. Fa. E sai perché?

Perché papà? 

Una conferma, una donazione, un tempo passato.

Il Si è una conferma?

Sì, è una parola piccolissima, ma quando la dici stai bene.

E perché una donazione?

La vita ti chiede sempre qualcosa, Filippo.

E il tempo passato?

Più grande è la campana, più grave sarà la nota. Per questo, quando muore un bambino, si suona la campana maggiore, quella più grande. Più breve è la vita che si è spenta, più grande è il dolore. Soprattutto per un genitore.

Era a quel punto, sempre lo stesso, che mi accorgevo di essermi dimenticato delle mani e mi ritrovavo le schegge conficcate nei palmi.

Papà faceva suonare la campana più grande fra quelle che aveva finito di costruire, e chiudeva gli occhi mentre quei tre rintocchi riempivano ogni angolo del capannone.

Non andavo mai a trovare mio padre quando fondeva le sue campane. Avevo paura che un giorno scomparisse nel bronzo. Mi piaceva invece stare seduto sul tavolaccio solo alla fine, quando le lucidava e le issava sulle funi per farle suonare, e pazienza se poi mamma passava ore a togliermi le schegge con la pinzetta.

Il pendolo, diceva, è la parte più insidiosa della campana. Se non ha la forma giusta, se non oscilla nel modo giusto, avanti e indietro, come le onde, così diceva, come le onde, la cassa vibra male e il suono non è solenne. Non è preciso.

Il mio tesoro più grande sta nella mia stanza, appeso alla parete tra l’armadio e il letto. È un grosso batacchio venuto male. A papà non piaceva la parola batacchio, preferiva pendolo.

Non è facile trovare l’oscillazione perfetta del pendolo, Filippo, uno ci può mettere anche anni a trovare la giusta cadenza.

E tu l’hai trovata, papà?

Le accarezzava, le campane, qualche volta ci parlava pure, mentre le lucidava. E io avrei voluto essere una campana, anche solo per un minuto, e suonare nel modo giusto. Ma la mia testa, la mia testa, dicevano tutti, aveva gli ingranaggi al contrario. Forse nella mia testa c’era un pendolo venuto male.

Sento ancora la voce di papà, anche se sono passati molti anni.

La sento nelle chiese, quando suonano i tre rintocchi. Si. Do. Fa. Campane a morto. Mamma dice che non sta bene, che non si fa. Ma io ci vado lo stesso. Vado a tutti i funerali del paese. Mi siedo in fondo, e aspetto. Devo essere preparato. 

Papà aveva ragione: quando le bare sono più piccole, il suono è più grave, più solenne.

I funerali sono strani. Uno crede che sia sempre la stessa cosa, le stesse parole, alcune le ho imparate e ogni tanto me le ripeto anche a casa, prima di dormire, ma sono tutti diversi i funerali. Una volta una signora mi ha detto che il defunto poteva risvegliarsi nella bara, sottoterra. Che qualche volta ti danno per morto ma in realtà hai solo il battito lento, lentissimo. Per un paio di giorni sono andato al cimitero. Ma te lo immagini, papà, quante schegge ti si conficcano nelle mani se cerchi di uscire da una bara sottoterra?

Ai funerali resto fino alla fine però, ogni volta. E ascolto, papà, ascolto sempre. E sento la differenza. Forse è colpa dei pendoli, ma non è mai lo stesso suono.

Una cosa però te la vorrei dire, papà. Non è quello il suono peggiore. 

In una bara ci sono ventiquattro fori. Lo so perché li ho contati, tutti, sul fondo e nel coperchio. Ventiquattro. Quella pistola che usano, quella sì che fa un suono grave. Ti fa strizzare gli occhi ogni volta. E alla fine, dopo ventiquattro volte, piangevo papà, perché a strizzarli troppo gli occhi poi ti viene il mal di testa. È questo il suono che ricordo. E non è come le onde, non va avanti e indietro. Non è accettazione, donazione e passato. È un suono che lacera, come le schegge.

Per questo vado ai funerali, tutti i funerali papà, e ascolto le campane a morto. Quei rintocchi li posso ascoltare, non si conficcano dentro come le schegge.

Illustrazione di Melissa Brusati

Giovanna Giordano

Giovanna nasce in padania da genitori terronici, dal nord ha imparato ad alcolizzarsi di vino, dal sud a mangiare come se non ci fosse un domani. Da piccola ha frequentato tutte le scuole cattoliche che Verona offriva, infatti poi è diventata atea. Da grande vuol far parte del fronte liberazione nani da giardino.

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