Atto di fede

     Inspirò l’aria fresca, ricca di cloro e dei filari di vite poco distanti, accettando una volta per tutte che sarebbe morta giovane. Era un’idea che aveva cominciato a metabolizzare durante tutto l’anno passato, quando ogni mattina, uscendo dalla fermata della metropolitana, si affacciava sullo slargo dove metà città si inchiodava con l’auto, appestando l’aria. A piccoli passi raggiungeva quindi l’ufficio qualche via più su, lungo uno dei corsi che, nel senso inverso, finiva in quel pantano mortifero. D’inverno di solito provava a nascondere la bocca, il naso dietro la sciarpa, ma tanto ne era convinta: era tutto inutile. Lo sapevano, i suoi amici, che lo smog uccide ogni anno quasi nove milioni di persone? Se lo sarebbe goduto a fondo, allora, quel momento di pace assoluta, uno degli ultimi che le spettavano, prima che il dolore arrivasse a travolgerla: per lei non era più questione di se, piuttosto di quando sarebbe successo. E così ogni piccolo malessere giornaliero, il ciclo che tardava, diventavano il segnale d’inizio di quel destino già segnato, pregustato tante volte nella nebbia delle mattine d’autunno.      

Guardò suo figlio, distratto a giocare con le gemelline della coppia con cui avevano condiviso tutto, dalle prime ecografie ai compleanni rumorosi. Che bello, saperli insieme tra i banchi di scuola, alle prese con gli stessi problemi; che bello cullarsi nell’idea che avrebbe avuto qualche conforto femminile quando lei, la mamma, non ci sarebbe stata più. Con la rivista tra le mani, si riscoprì ad arricciare le labbra per trattenere le lacrime dietro gli occhiali da sole, mentre le voci delle amiche la avvolgevano accavallandosi una sull’altra.

Il trattore, i piccoli braccioli a strisce rosse e bianche, il pentolino dentro cui ogni mattina scaldava il latte per lui prima che assonnato ci versasse dentro i cereali: con le prime chemio avrebbe perso, a manciate, tutte queste piccole cose che la identificavano in quanto madre, che definivano i parametri del rapporto con il suo bambino. Certo, lei ancora non era malata. Però poteva accadere da un momento all’altro, magari proprio lì, sulla sdraio, sotto ai raggi del sole d’inizio estate, ancora tiepido. Per questo, si disse, era essenziale ritrarsi da subito a piccoli passi, per abituarlo a fare a meno di lei, a soffrire poco o niente una volta che l’inevitabile si sarebbe finalmente abbattuto sulla famiglia. Sì, era giusto così.

Fissò lo sguardo sulla parola “green”, al fondo della pagina che – se ne rendeva conto – avrebbe già dovuto girare da un pezzo. Chiuse gli occhi, allora, rallentando immediatamente il respiro. Poco dopo le amiche abbassarono la voce, poi smisero di parlare per un tempo che le sembrò infinito. Si alzarono infine per andare a bere una cosa al chioschetto, nascosto all’ombra di una tettoia: nessuna di loro chiese se desiderasse qualcosa e gliene fu grata. Lontano dagli sguardi delle donne, appoggiò finalmente la rivista sulla pancia, assicurandosi che sembrasse appena scivolata di mano. Alcune pagine si stropicciarono, solleticandole l’ombelico. Gli uomini giocavano a carte da ore, curvi su un tavolino di plastica.

Il figlio intanto si allontanò dagli altri bambini per giocare da solo sul prato, col trattore e la ruspa che i nonni gli avevano regalato per l’estate. Era bello, di quelle bellezze che da madre implori non sfumino in qualcosa di indefinito, di mediocre col passare degli anni. Lo osservò a lungo, imponendosi di conservare questo momento con tutta sé stessa: suo figlio ignaro di tutto. Sereno, da solo. Ce la poteva fare, ce la poteva assolutamente fare senza di lei.

Passò qualche secondo prima che riuscisse a domare l’irrigidimento con cui il corpo le impose nuova attenzione. A piccoli passi timidi, evitando le fughe delle piastrelle come faceva sempre anche in casa, sul pavimento in cotto, suo figlio prese a misurare il bordo della piscina sul lato opposto rispetto al suo. Lei concentrò tutta l’attenzione su un arto alla volta.

Prima le braccia. Bene.

Poi la gamba destra, che con uno spasmo già invocò il contatto con la terra per mettersi in azione. 

I muscoli si abbandonarono di nuovo sulla tela ruvida della sdraio. Non sarebbe successo niente al suo bambino, non in quel momento. Lo sentì in profondità, fin nell’addome, come uno sperone caldo che le rimestava l’intestino. Si impose quindi di non intervenire, non avvertirlo che lì, proprio dopo quella fuga, la piscina già diventava profonda due metri. Doveva abituarlo a capire da sé.

Il figlio le passò davanti, cercandole gli occhi dietro alle lenti, in attesa di una qualche reazione. Continuò poi veloce lungo il bordo, superando anche i figli degli altri, quindi ricominciò dal lato opposto. Così per dieci minuti.

Il tonfo nell’acqua, dovette ammettere a posteriori, se lo sarebbe immaginato più forte, quasi come lo scoppio di un petardo, uno schiocco di frusta accanto all’orecchio. Fu lieve, in realtà, quasi dolce il modo in cui l’acqua accolse il suo bambino. Era stato un uomo, mentre spostava la sua sdraio più al sole, a urtarlo sul bordo della piscina. Lei rimase immobile, calma. Non seppe dire cosa non andasse in lei quel giorno, perché non avesse messo fine alla farsa: eppure continuò a fingere di dormire, mentre con gli occhi sgranati provò a invocare l’intervento del marito come fosse uno strumento, l’unico in grado di tirar fuori il figlio che annaspava in acqua. Salvalo tu, quando io non ci sarò. Non ci sono già più. Afferrò lentamente le scanalature esterne del lettino, stringendole con forza crescente. Vedrai, si diceva, ce la farà. Non ha bisogno di te.

 Fu lo stesso uomo della sdraio, in realtà, a ripescarlo poco dopo con mano ferma. Lo sollevò come fosse l’agnello scelto per il pranzo di Pasqua, stendendolo accanto alla vasca da cui ora il figlio si ritraeva, ancora in cerca di aria. Cinque, sei secondi: fu tutto talmente veloce che se il bambino non fosse stato fradicio avrebbe faticato a distinguere immaginazione e realtà.

Si alzò allora con attenzione, osservandosi i palmi delle mani segnati da un netto solco orizzontale, rossastro e pulsante. Raggiunse l’altro lato della piscina con fare frastornato, centellinando lo sconcerto in piccoli e calcolati crescendo. Il bambino singhiozzava, tremante nonostante i venticinque gradi e le mani gentili che lo confortavano.

Shhh disse allora lei, accogliendolo finalmente tra le braccia. Shhh, va tutto bene. La mamma è qui.

Illustrazione di Elisa Invy Inverardi

Gabriele Sebastiani

Gabriele nasce a Torino, dove vive in un loculo tra libri, biscotti e scarpe. È toro ascendente ariete, cuspide su gemelli: è bene che si sappia, anche se non interessa a nessuno. Potendo scegliere, morirebbe come Ilaria Occhini in Mine Vaganti.

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