Sembrava l’epidemia di Strasburgo

Alla fine aveva scelto di appoggiare la teoria della suggestione collettiva. Poteva infilarci anche il caso della piaga del ballo di Strasburgo di cinque secoli addietro e avrebbe fatto bella figura nell’inserto culturale.
Sistemò gli appunti sgualciti, seduto a gambe incrociate, cominciò a sgranocchiare una merendina. Era il terzo giorno che passava accampato sul binario uno. Per fortuna anche lì in provincia si era presentato un mite dicembre o sarebbe morto di freddo. E per fortuna la stazione era separata dal resto di quel minuscolo paesino da una semplice rete flessibile e qualche aiuola per mascherare la bruttezza grigiastra di quel luogo di transito. Il binario era il suo avamposto. Poteva starsene lì quanto voleva.

«Sta esagerando. Le ho già detto che deve andarsene.»

Non l’aveva visto arrivare. Quella mattina l’uomo con i baffi gli sembrò ancora più trasandato.

«Mi sembra che abbiamo chiarito che la stazione non rientra nella vostra zona. Posso starmene qui quanto voglio.»

«Ci disturba. C’è gente che ha da fare qui.»

«Fare cosa? Ciondolare scalzi qua e là? Perché non mi fa parlare con qualcuno di un po’ meno scorbutico?»

L’uomo gli aveva già voltato le spalle. Vide che i suoi piedi nudi erano ricoperti di graffi e vesciche. In effetti dondolava verso destra in maniera preoccupante.

«Cosa vi fa credere che l’apocalisse è arrivata? Avete avuto contatti con le altre città chiuse? Come fa a sapere che da questo lato della rete il mondo non è finito?»

Gli aveva rivolto quelle domande dal primo giorno, senza speranza. Quella mattina però l’uomo si voltò rabbioso rischiando di cadere.

«So che da quella parte il mondo non è finito perché c’è lei a fare quelle sciocche domande.»

La prima a collassare era stata una grande metropoli. Preferiva il termine collassare perché riteneva errato parlare di città in stato di coma come facevano i media da quando quella storia era iniziata.

Le metropoli, le città, e paesini e persino i borghi che poco per volta avevano deciso che la fine del mondo era arrivata non erano privi di coscienza, sintomo presupposto di uno stato comatoso. Non vigevano letargia o inconsapevolezza. Semplicemente tutte le funzioni si spegnevano, gli uomini cominciavano a non fare più niente se non ciondolare scalzi per strada, chiedendosi l’un l’altro perché il mondo fosse finito, osservando il cielo e sospirando tristi.

Tolse dal fascicolo la tabella che aveva fatto prima di partire. Negli ultimi quattro mesi ormai centododici città si erano rinchiuse in una bolla di oblio e decadenza. Se all’inizio poteva sembrare uno scherzo, un’operazione per sensibilizzare al cambiamento climatico, all’era della comunicazione o a qualsiasi altro tema caldo, era stato chiaro che la faccenda fosse ben più grave quando le persone avevano cominciato a morire di fame e di sete. Un comico che aveva scherzato sul fatto che stessero morendo di noia era stato messo alla gogna pubblica. Non si poteva più scherzare sulla fine del mondo e neanche capirla. L’unica possibilità era osservarla e, se in grado, raccontarla. Ma anche quella cominciava ad apparire come un’opzione più difficoltosa del previsto. Gli uomini si trinceravano nelle loro città finite. Infatti da quando si erano accorti che lui era lì avevano cominciato a evitare la strada che costeggiava la stazione e andavano a confidarsi sulle questioni dell’apocalisse lontani dalle sue orecchie. Era evidente che l’uomo con i baffi era stato incaricato per andare a scacciarlo, rifiutandosi di rispondere a tutte le sue domande.

Cominciava a pentirsi di aver proposto quel pezzo. Un articolo che oltretutto si sarebbe perso in mezzo agli altri, una particella cinerea alle pendici di un vulcano. Era impossibile parlare d’altro e alcune città ormai vivevano in preda a una tale ansia della fine che quasi conveniva sperare che quella arrivasse in fretta.

«Scrivi a mano perché la tecnologia non funziona neanche lì ormai, vero?»

Due occhi acquosi lo fissavano di là dalla rete.

«Persino le calcolatrici si rifiutano di funzionare» la ragazza puntò il naso verso il cielo «per non parlare di tutte le lampadine che sono esplose. Tutte insieme» fece un gesto con le mani a mimare un’esplosione.

Era senza parole, ma cercò di riprendersi in fretta.

«Dici che la tecnologia non funziona ma non credi che forse siete voi a esserne convinti? Come fanno le calcolatrici a smettere di funzionare? Come fate a essere certi che la fine del mondo sia arrivata? Non siete forse voi che la state creando? Vi tenete in contatto con le altre città? Sai che siamo a quota centododici?»

Lei cominciò ad avvolgere il dito intorno alle sue ciocche sporche.

«Fai un sacco di domande. Le calcolatrici non calcolano più, semplice. Perché scrivi a mano?» chiese ammiccando «Se anche lì le cose hanno smesso di funzionare presto te ne renderai conto che tutto è finito.»

«Mi piace scrivere a mano, e guarda un po’ qui» tirò fuori il cellulare e lo avvicinò al suo viso di là dalla rete «funziona alla grande.»

«Ah. Immagino che allora ci vorrà un altro po’ di tempo perché arrivi anche lì.» Aveva un tono così dispiaciuto che per un attimo rimase interdetto.

«Senti…Vuoi qualcosa da mangiare? Hai due occhiaie da far spavento, resta qui con me.»

«Ci stai provando? Non sei molto professionale.»

«Ma per favore! Stai morendo di fame! Il vostro paese è in questo stato da quasi una settimana. Cominciate a essere disidratati? Ci sono già state vittime?» Arrossì, in parte perché lei gli aveva detto che ci stava provando in parte perché aveva posto l’ultima domanda con una certa supponenza. Anche lei sembrò prendersela.

«Credimi, stiamo meglio di te.»

Lo guardò come se fosse una bestia e si allontanò così in fretta che sembrava stare davvero bene. Sentì che quella ragazza aveva più fiducia in qualsiasi cosa stesse accadendo di quanta ne aveva lui. Per la prima volta lo disturbò il pensiero di provare a rompere quell’assedio dall’interno. Ma non aveva scelta. Se nessuno di loro voleva dirgli qualcosa doveva farlo. Durante la notte sarebbe entrato in paese. Di cosa poteva scrivere altrimenti?

Il binario gli sembrò d’un tratto più piccolo; tutto alla fine sembrava consistere nel margine comodo in cui ci si accovaccia e si fa la tana. Come le bestie.

Era quasi riuscito a farsi strada tra le auto che erano parcheggiate di fronte all’uscita della stazione per impedire che uno come lui entrasse in paese quando si accorse che anche lei era lì. Procedeva a tentoni perché non aveva una torcia e si schermò gli occhi con le mani quando lui le puntò la sua addosso.

«Cosa stai facendo qui? Dobbiamo andarcene.»

«Stai scappando? Perché ce ne andiamo? Hai bisogno di aiuto?»

«Stai cercando altre informazioni o vuoi darmi una mano?»

Le tolse lo zaino dalle spalle.

«Prendo le mie cose e ce ne andiamo.»

«Non ce n’è bisogno. Sbrighiamoci prima che arrivino gli altri.»

«Ti stanno seguendo? Hai tutto il diritto di andartene…» un moto di rabbia lo interruppe. Quella ragazza aveva avuto buon senso e loro volevano trascinarla di nuovo in quella follia. Lei si riprese lo zaino scuotendo il capo.

«Non hai capito: ci stiamo trasferendo. L’apocalisse sta per arrivare nelle città qui vicino. Vogliamo andare a vedere.»

Lo prese per mano e cominciò a trascinarlo lungo il binario.

«Se ci muoviamo saremo i primi ad assistere. Quando arriva è… Vedrai da solo com’è.»

Seguiva le rotaie entusiasta. Era ancora più pazza di quanto pensasse; quell’isteria di massa aveva superato sé stessa.

«Tutte le città nel raggio di venti chilometri da qui stanno per farla finita, se siamo fortunati…»

«Venti chilometri?» piantò i piedi e squittì «Ma io vivo…»

La sua città era lì vicino. La sua città era pronta. Lo era?

Abbandonò le rotaie e costeggiarono un campo. Gli sembrò che alle sue spalle il binario, sferzato dal primo vento freddo di quel dicembre, guaisse come un animale ferito. Lo stava abbandonando. Ma adesso avrebbe potuto finire il suo pezzo dall’interno. Dentro l’assedio.

Ma quale assedio? Più seguiva la ragazza più gli sembrava di non seguirla affatto. Aveva soltanto fretta di arrivare in tempo. Laggiù dove c’era la fine.

Un racconto di Diletta Crudeli

Illustrazione di Nora

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