La bacheca

La fama di mio marito mi faceva terrore. Più di un milione di condivisioni in una settimana. Era diventato una star da un giorno all’altro. Il suo canale vantava contenuti di un certo spessore; temi forti trattati con una sensibilità e una sensualità difficili da trovare altrove. In più era bello. Lo volevano tutti. Tutte.

Inviti, conferenze, lettere a cuore aperto di fan che vomitavano tutta la loro ammirazione e devozione.

Vivevo assediata. “Se mi distraggo succede il finimondo”, mi ripetevo all’inizio. Passavo le giornate a leggere i commenti: “Le tue parole mi entrano dentro”, “Mi scavi l’anima”. Ammiccamenti sotterranei dal gusto discutibile; e poi cuore, cuore, cuore, stella, cuore, bacio, tramonto. Ancora cuori.

Una parte di me si sganasciava davanti a quelle manfrine, soprattutto perché la gelosia non mi era mai appartenuta e lui non mi dava adito a dubbi. Poi divenne opprimente.

Ci misi un po’ a capirlo; quello che digerivo male era un’altra cosa. Non toccava l’amore, la fiducia. Peggio: non tolleravo che cercassero intimità. Assistevo a un’ostentazione oscena di confidenza; cari e vecchi amici conosciuti mezza volta che reclamavano pezzi di lui. Sconosciute che rivendicavano una familiarità inesistente, e la sfoggiavano senza ritegno. Leggevo quello scempio sul suo profilo e andavo fuori di testa. L’assurdo era questo: l’innocenza. Frasi al limite del gioco, pudiche come scolarette delle elementari, inattaccabili. Sotto quella manciata di caratteri, sottintesi da mandarmi al manicomio. E i messaggi, tanti. Invadenza fuori controllo. Un trillo alla volta. Cento al giorno.

Piccoli segnali di presenza e ammirazione a cadenza regolare, inviati con i pretesti più banali, ma che urlavano una cosa sola: considerami.

La confidenza sui social è una bestia indomabile: te la prendi anche se non ti viene data. E loro la prendevano.

Poi c’erano i post orchestrati ad arte, certe volte perfino vagamente irriverenti, che marciavano sul filo dell’amicizia navigata, ma che avevano l’intento preciso di leccargli il buco dell’ego e poi ficcarglielo dentro fino alla gola. Tag come sfoggio di vicinanza.

Io lo vedevo chiaro. Io vedevo tutto.

Quando arrivavo al limite della tolleranza glielo dicevo. Male. Lui si arrendeva subito: «Leggi i messaggi, leggili tutti. Non c’è niente di ambiguo. Appena sento che esagerano, sparisco». Non capiva, non vedeva.

Deliravo. Non ero una di quelle mogli. Non ero un’insicura. Lui era perfetto, affidabile, limpido. Io ero sbranata: infilavo in certi buchi neri da non riuscire a cavarci le gambe. Mi lasciavo mangiare le ore. Poi sbottavo. Diventavo matta per una sconosciuta qualsiasi che viveva a Canicattì e lo tartassava. Ero una cretina.

Per mettere in salvo quel poco di dignità che mi rimaneva scappavo, andavo al granaio dei miei genitori. Era su un pezzo di terra zoppo, che nonostante i vari tentativi non eravamo riusciti a vendere.

Lì almeno il telefono non prendeva e uscivo dal gorgo delle mie compulsioni.

Cominciai a frequentarlo con una certa regolarità, all’insaputa di mio marito.

Quando rientravo ero riallineata. All’improvviso mi sembrava tutto ridicolo. Nomi che fino a qualche ora prima mi avevano assalito i pensieri erano poco più di un’etichetta innocua. Facce senza senso, distanti.

Allora mi mettevo alla prova. Era un gioco da funambolo, ma ne ricavavo un certo piacere: entravo nei loro profili, guardavo i loro post, i tag, il nome di mio marito inchiodato sulle loro bacheche come un Cristo da venerare. Non provavo niente. Nessun solletico di gelosia, nessun timore. Ero una persona normale.

Sonia però esagerava. Il suo profilo social vantava una serie patetica di post ammiccanti finto-intellettuali, qualche ideale politico a poco prezzo, alcune fotografie dei suoi gatti dalle quali era possibile intravedere una caviglia illuminata bene. E mio marito. Mio marito, mio marito, e ancora mio marito. Quant’è bravo mio marito, quanto le sfonda l’anima mia marito. Praticamente non pubblicava altro. I post che lo riguardavano erano fotografie accompagnate con frasi a effetto scritte con la voce di una suorina sul filo dell’orgasmo. E poi i messaggi privati. Il trillo di Sonia era regolare, lieve, implacabile, da mesi, tutti i giorni.

Mi facevo schifo. Ero l’ombra patetica di me. Allungata e sfinita. Deformata e nera. Sentivo Sonia impossessarsi della mia giornata, entrare come un rigo d’olio da sotto la porta. Scacciarla era impossibile: mi dimenticavo di lei, e si palesava. Sonia era un cane a due teste che mi sbavava i pantaloni. «Sonia dice che ci viene a trovare, che mi ha comprato un regalo; Sonia dice che come me non c’è nessuno, che mi vuole fare una statua, che la sua vita non è più la stessa, che sta pensando di fare un figlio con suo marito, di prendere un cane, un criceto, un gatto; Sonia mi domanda se le voglio bene; Sonia rilancia un post, un video, una fotografia. Dice che ha scovato un segreto su di me. Sonia mi manda un cuoricino, una faccina che ride; Sonia mi ha scritto anche oggi, su Facebook, su Twitter, su Messenger, su WhatsApp, Sonia…» Sonia ha rotto il cazzo.

È così che mi è venuta l’idea. È stato un caso. Non l’avevo pensato con chiarezza. Avevo solo chiesto l’amicizia al marito di Sonia, così, per curiosità. Non avevo previsto in alcun modo che. Anzi, è stato lui. Io non ho dovuto fare niente.

Qualche messaggio; una roba alla come stai, come non stai, cosa fai nella vita, finalmente ci conosciamo, dai un bacio grande a Sonia da parte mia. Poi non me lo ricordo nemmeno bene, è successo una vita fa. Passava da queste parti. Un caffè, quattro chiacchiere. Ti piacciono i cavalli? Ma non mi dire? Io e mio marito abbiamo un pezzo di terra, c’è anche un granaio. Davvero vorresti comprarlo? Te lo faccio vedere, ti ci porto subito.

Nel rivestirsi dimenticò i guanti. Li inchiodai su un’asse.

Poi, col tempo, ci ho messo le sigarette del marito di Angela. Anche la maglietta del marito di Orietta, il maglione del fidanzato di Sandra, i calzini di quello di Antonella.

Ho fatto una piccola bacheca di ricordi, un promemoria di mogli invadenti. L’intromissione combattuta con la legge del taglione.

Quando guardo la mia piccola bacheca mi sento meglio e quella di mio marito non mi spaventa più.

Un racconto di Valentina Santini

Illustrazione di Incorrect Dog

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