Perché veste di nero

Palpitazioni. Tremito alla mano sinistra. Movimento della palpebra involontario

Quando è morto il compagno d’università che mi piaceva, mi è presa una colica qui: un affondo nell’intestino che mi ha portato sul cesso. Tempo di sedere sulla tazza, il dolore è scomparso. La pancia non tirava e le gambe non cedevano più. Sono dolori bastardi, quelli. Premonizioni. Lo capisci perché ti lasciano com’eri: senza traccia o strascichi di sorta.

Il cuore continua ad accelerare. Chi è morto, chi morirà, chi sta morendo? 

Esco sul balcone. L’aria ghiaccia le mani e il naso. Tiro su un grumo di catarro e lo sento sciogliersi nella gola a stento. Appoggio i palmi sulla ringhiera sporca. Batto per sentire il clang del ferro contro il buio. Mi sporgo e stringo la coperta di pile sotto il collo. Provo il sollievo immediato del tepore sintetico. Sulla faccia il freddo denuda e persiste. Di sotto, alla mia destra, la strada è vuota, una via stretta che si snoda fra ville liberty e palazzi flosci.

Dal fondo sta arrivando una figura più scura della notte. È Sergio. Deve essere Sergio. Perché veste di nero. Perché è tardi. Perché sono qui, al freddo e con le palpitazioni.

Una volta mio padre è rimasto bloccato nella neve. Abbiamo mangiato davanti al telegiornale delle otto e sbucciato la frutta, come ogni sera. Il pezzo di mela in bocca non mi andava su né giù. Mi stupivo del fatto che il telegiornale andasse in onda lo stesso. Che l’uomo sullo schermo avesse il tono monocorde di sempre. Mia madre, forse, non se ne accorgeva e dalla buccia, con il coltello, ha ricavato un ricciolo perfetto. 

Era così che funzionava? Tutto andava avanti come se nulla fosse? Intorno, davanti, da qualche altra parte del mondo?

Quella notte mio padre è tornato. Non avevo avuto mal di pancia. 

La figura in nero, schiacciata dalla prospettiva, non è Sergio. La guardo passare e scomparire sotto la sporgenza di un edificio.

Non posso restare qui. Non sento i piedi, le mani. Mi cola il naso. Sulla faccia il freddo formicola e brucia. Nel giardinetto c’è una ragazza con la sciarpa sul naso. Porta al guinzaglio un cane massiccio che non distinguo: un’ombra dai bordi sbavati come in un quadro di Bacon.

Mi stacco dalla ringhiera e rientro in casa. Il calore è una bolla. Il freddo si scioglie rapido. Si raccoglie fra le dita e la pianta dei piedi.

Chiamo Sergio, ma non risponde. C’è la segreteria da mezz’ora, cazzo.

Metto le dita in bocca. Ho smesso di mangiarmi le unghie da un pezzo. Uso un dito, uno soltanto. L’unghia è scavata ai lati, rossa e grigia per i morsi e gli strappi. Il polpastrello è deformato, gonfio. Un dito dovevo tenerlo buono, per ogni emergenza. Non si sa mai.

La saliva si mescola al sangue. Il sapore di ruggine mi dà il voltastomaco. 

Smetto di mordere. Cammino su è giù per la stanza. Dovrei vestirmi e scendere in strada. Telefonare. Sì, telefonare a chiunque, chiunque mi capiti a tiro. Che cazzo succede?

Vorrei fare tutto insieme. Vestirmi, scendere, chiamare il mondo. Non una cosa e poi l’altra, cazzo. Da dove si comincia? Che cosa faccio per prima?

Il telefono emette un suono di goccia nel lago. È arrivato un messaggio.

Palpitazioni. Tremito alla mano sinistra. Movimento della palpebra involontario.  

Afferro il cellulare e leggo. È Giulia. Scrive che Francesca ha avuto un incidente, è stata investita. Non vedo Francesca da un anno. Vive in collina e ha due figli. Ai tempi dell’università, andavamo ai concerti e mangiavamo i biscotti comprati all’autogrill in piena notte. 

Intanto, il mal di pancia è tornato e il citofono sta suonando da un po’.

Un racconto di Laura Scaramozzino

Illustrazione di Artista Senza Nome

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