Anche in provincia si muore soli

– E tu?

– Io cosa?

– Tu cosa faresti, se potessi scegliere?

– Intendi con poche ore prima del gran finale?

– Eh.

Il Geo guardò a sinistra. In lontananza si vedevano le luci nella notte di Genova e il suo mare antico. Vi indugiò un attimo, lungo come la boccata della sigaretta che stava fumando. Poi rigirò il capo e, seduto con gli altri tre su un fusto bianco di betulla, caduto da chissà quanto tempo, appoggiò il mento sul pugno.

– Non saprei –, rispose.

– Io scoperei tutto il tempo –, intervenne Lupo.

– Tu scoperesti sempre: fine del mondo o no –, ribatté Nanni. E giù tutti a ridere.

Il suono degli sghignazzi venne disturbato da un frastuono di vetri che incocciavano tra loro: il Geo stava ravanando nella borsa blu dell’Ikea che si erano portati dietro. Prese due birre, le aprì e ne passò una a Lupo e una a Peppo.

– E tu, Peppo, cosa faresti? –, domandò Nanni all’unico che non aveva ancora parlato.

– Io giocherei a carte. Fino alla fine.

Peppo era un campione in tutti i giochi di carte in cui la componente umana avesse una qualche rilevanza – motivo per cui disprezzava la scala 40, “ché anche un idiota, se gli girava bene, poteva vincere”, diceva.

Pinnacola, scopone scientifico, poker: una vera macchina da gioco. Peppo, trentenne con la terza media, una visione del mondo tendenzialmente semplice e nessun afflato di cultura, vantava una memoria da genio che gli garantiva ottime possibilità di successo. L’unica variabile che sanciva i suoi rari tracolli ludici era dettata da ciò che volgarmente si può definire “culo”. Ma Peppo, fino a non troppo tempo fa, era sempre stato convinto che il culo, in realtà, non esistesse. Lui continuava a giocare avendo piena fiducia nelle sue facoltà mentali e questo gli aveva sempre detto bene.

Poi arrivò il momento in cui il gran finale – così lo chiamavano loro – venne annunciato con ineluttabile precisione. Non c’era nulla da fare. La componente umana aveva perso, rivelando tutta la sua inutilità di fronte a un evento inaspettato che forse si poteva annoverare nella categoria della casualità o forse, ancora, del determinismo. Usare l’ingegno o stare con le mani in mano avrebbe portato allo stesso risultato: il mondo si stava spezzando e lo stesso facevano, man mano che si scendeva a patti con ciò che stava succedendo, le convinzioni di Peppo.

– Col culo sulla sedia del bar fino alla morte, eh! – disse Lupo.

– Puoi ben dirlo.

– Sì, ma dovresti trovare tre sciroccati come te, ché se no ti tocca fare un solitario –. Il Geo sollevò la sua obiezione d’ordinanza.

– E tu credi che non ne troverei? Tre quarti di ’sto paese ha passato più tempo col culo su una sedia del bar che a fare altro. Ci metterei meno io a trovare tre tizi con cui giocare che Lupo a rimediare una scopata.

– Coglione –, disse Lupo, con tanto di scappellotto sulla nuca di Peppo che gli fece sputare la sorsata di birra appena tracannata.

– Io saprei cosa fare –, intervenne Nanni. – Partirei per mare senza meta, con la barca da pesca di mio padre. Qualche birra, dell’erba, e che venga pure la morte a prendermi.

– Sì sì, bello, ma hai solo poche ore. Con la barca di tuo padre, bene che ti vada, in quel lasso di tempo puoi arrivare a scorgere in lontananza la Corsica –, era il Geo a parlare, ovviamente.

– E a me sai che cazzo me ne frega: mi basta essere in mare.

– Oh, molto poetico –, disse Lupo, e anche Nanni fu costretto a subire uno scappellotto sulla nuca.

I quattro sulla collina erano seduti sul solito tronco appoggiato alla base di un’immensa croce, monumento ai caduti di chissà quale guerra. Peppo da bambino era terrorizzato da quella croce, anche perché la tetra suggestione che il luogo incuteva era alimentata da una pala eolica, dieci metri dietro la croce, che di giorno, quando si passava di lì, faceva un rumore che sembrava quasi impercettibile, ma di notte, col mare sotto e il bosco ai lati, era tutta un’altra storia.

Di colpo si udì un rumore nel buio. Proveniva dal bosco alla loro destra. Dallo spavento, Nanni si ribaltò, perdendo l’attrito che il suo culo faceva contro il tronco.

– Cosa è stato? – disse con la schiena a terra, mentre si dimenava come uno scarabeo rimasto bloccato sul dorso.

– Sono stato io –, rispose Peppo. – Ho lanciato la bottiglia di birra vuota.

– Ma sei scemo!? Cazzo fai: sporchi il bosco?

– Eh. Tanto –, poi si rivolse al Geo. – Me ne apri un’altra, per favore?

– Sì, ma se lanci anche questa nel bosco, la vado a recuperare e te la spacco sulla testa.

Peppo non rispose.

Intanto Nanni riuscì a tirarsi su, per poi mettersi a carponi e tastare il terreno alla cieca.

– Qualcuno mi faccia luce con un cellulare –, disse.

Peppo, sentendosi in colpa, si alzò, andò vicino a Nanni e, utilizzando il telefono, illuminò la parte di terreno dove Nanni sbatteva le mani con insistenza.

– Che cerchi? – chiese Lupo.

– Una canna: l’avevo appena girata.

– Eccola –, disse Peppo, illuminando il piede sinistro del Geo. – Non ti muovere! – aggiunse con tono allarmistico, rivolto al Geo, come se avesse messo il piede su una mina. Nanni la raccolse e la accese subito e il Geo poté così ricominciare a respirare.

Peppo tornò a sedersi e il gruppo si ricompose.

– Comunque ci ho pensato: io mi suiciderei –, disse il Geo, a riportare il focus di tutti sulla discussione, dopo i disagi causati dal lancio della bottiglia.

– Prego? – rispose Nanni, col viso incredulo ma la mano abbastanza ancorata alla realtà da passare in scioltezza la canna al Geo.

– Hai capito bene –, pronunciò con noncuranza, mentre aspirava il fumo.

– In una situazione come questa, la scelta è l’unica cosa che rimane e ci lascia la dignità di esseri umani: io voglio scegliere quando morire, non sottostare a ’sto cazzo di gran finale.

– Pure alla morte, riesci a rompere i coglioni–, intervenne Lupo ma questa volta senza scappellotto, ché quando il Geo dissertava era meglio non entrare nel suo campo elettromagnetico.

Il Geo non rispose. Gli passò la canna e poi gli diede le spalle girandosi di tre quarti verso Nanni.

– Però è interessante, ’sta cosa che dici –, intervenne Peppo. – Da dove ti è uscita?

– Boh, è un po’ che mi ronza in testa. Da quando si è ucciso Monicelli.

Il Geo, pur non avendo il minimo interesse culturale, provava una passione smodata e devota per “Amici Miei”. Peraltro, strano che amasse così tanto quella trilogia, visto che tutto si poteva dire del Geo tranne che fosse uno incline alla goliardia tra amici e alla risata. Forse, in quei film, riusciva a cogliere meglio gli aspetti malinconici e amari, rispetto a quelli divertenti.

– Spiega –, disse laconico Nanni.

– Eh, un tizio novantacinquenne che sceglie di uccidersi, dimostrando di non accettare la malattia e facendo valere la sua libertà di scelta, a me suscita ammirazione e rispetto.

– A te Monicelli susciterebbe ammirazione e rispetto pure se si scoprisse che in realtà era il mostro di Firenze –, disse Lupo.

Tutti davano per scontato che, anche questa volta, il Geo non avrebbe risposto, mettendo su il suo tipico mutismo pregno di superiorità.

Invece non andò così.

– Hai rotto il cazzo, sai. Data la situazione mi sembrava sensato rispondere seriamente, anziché fare come hai fatto tu, tirando fuori la tua parola universale, che usi per tutte le occasioni: “scopare”.

– Certo che te, guai a ridere, eh.

– Lupo, non c’è un cazzo da ridere, nel caso non te ne fossi accorto.

Lupo tirò un’enorme boccata dalla canna. Non l’aveva ancora passata a Peppo: se la teneva stretta andando quasi a doppiare il tempo medio di permanenza, nelle mani dei componenti del gruppo, della loro unica fonte di luce artificiale.

– Ok, vuoi proprio sapere che farei? – disse, vomitando fuori le parole tra un colpo di tosse avvolto nel fumo e l’altro.

– Eh.

– Andrei da mio padre e lo coprirei di insulti e sai perché? – aspirò una boccata identica a quella di prima che ’sta volta riuscì a espellere, senza tossire, in un turbinio di fumo. – Perché non sopporto più di vederlo felice per ciò che sta succedendo: felice, perché il suo fondamentalismo religioso del cazzo gli ha messo in testa che questo sia il giusto castigo di Dio, una sorta di giorno del giudizio; felice, perché con la morte potrà finalmente riabbracciare mio fratello. Vorrei che esistesse una sorta di limbo post mortem, prima del buio eterno, in cui un credente abbia il tempo di rendersi conto che non esiste nessun aldilà. E io vorrei essere lì, con mio padre, in quel momento. Indicarlo e ridergli in faccia. Poi che venga pure, il buio.

– Una roba degna di Monicelli –, rispose il Geo.

– Geo, non so più come dirtelo: io non so un cazzo di Monicelli.

In quel momento, il cielo nero delle due di notte, iniziò a regalare qualche fiammata, prodromo dell’imminenza della fine. I peli sulle braccia si rizzarono e i sensi si acuirono, con l’obiettivo di non perdere manco una sfumatura dei mutamenti ambientali che stavano avvenendo tutt’intorno.

– Ci siamo quasi –, disse Peppo.

– Vuoi andare in paese a giocare a carte? – gli chiese Nanni.

– No, preferisco stare qua, sempre che Lupo si degni di passarmi la canna.

– Eh, aspetta –, gli rinfacciò Lupo. – Che fretta hai?

E tutti a ridere.

Nanni si alzò lentamente, con la fatica di un anziano che tenta di mettersi in piedi. Una fatica che cozzava coi suoi ventisette anni. Poi si avviò verso il limitare della collina, da cui partiva una riva ripida e implacabile che, a chilometri di distanza, si tuffava nel mare.

– Guarda che è il Geo, quello che deve suicidarsi –, gli disse Peppo.

Il Geo sorrise. Pure Nanni lo fece.

– Coglione. Sto solo guardando il mare.

I tre vedevano Nanni di spalle: una sagoma nel buio, con le braccia lungo i fianchi e una bottiglia di birra nella mano destra, impugnata dal collo. Una sorta di viandante su mare. Senza nebbia. Nella notte. Col cielo sempre più fiammeggiante.

– Ognuno coi suoi piani infallibili e invece ce ne stiamo qua, a aspettare il gran finale –, disse. Poi si portò la bottiglia alla bocca, facendo diventare la sua silhouette di spalle una sorta di mutilato di guerra, senza l’avambraccio destro, perfetto per guardare l’orizzonte da un luogo in cui troneggia una croce monumento ai caduti.

Dopo aver dato un sorso, il braccio tornò nella sua posizione originaria.

– Certo che, visto da quassù, con voi, il mondo sembra bellissimo –, disse con un tono di voce leggermente incrinato: non era uno di quei tentennamenti che preannunciano la commozione; era qualcosa di diverso, ma in grado di conferire alle sue parole un passo lieve e allo stesso tempo duraturo, come l’orma nel cemento lasciata dal piede di un bambino.

Lupo si alzò e andò verso di lui:

– Ti passo la canna, ché mi stai diventando nostalgico.

– Stronzo, toccava a me –, protestò Peppo.

Un racconto di Stefano Marino

Illustrazione di Rebecca Fritsche

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