Il nemico

I vestiti che indossa il nemico sono puliti e questo è un problema perché capisco di avere a che fare con qualcuno di metodico e soprattutto con qualcuno che ha molto da perdere.

I vestiti che indossa il nemico sono puliti ogni giorno.

Scende al binario alle sei e cinquantaquattro, come ogni mattina, due minuti prima del passaggio della metro. Gli bastano: ne deduco assenza d’ansia e quindi molti anni da vivere. Un cuore forte, proprio come lo è la probabilità che abbia una vita sessuale appagante, fatta di rapporti completi, quotidiani: sempre lo stesso partner, ma certo di elevato spessore. Penso a posizioni semplici, attive; a orgasmi corti ma regolari: poco interessante dal punto di vista cinematografico ma forse grazie anche a questo il nemico non ha neppure una ruga. Io sono già lì da un quarto d’ora e lo attendo: attendo il treno.

 È elegante, il nemico. Non sembra nemmeno anziano, anche se l’università è alle spalle di sicuro da molti anni: avrà più o meno la mia età e quindi molti mesi davanti prima di poter accedere alla pensione. La barba è fatta, come ogni mattina, niente di sofisticato: assenza completa di peli visibili.

I vestiti che indossa oggi il nemico sono puliti.

Osa un maglioncino giallo ocra con cravatta in tinta, pantalone blu scuro di marca sicura, Church’s marroni appena comperate. Il soprabito è quello solito, lungo, di lana grossa. Mezzo stipendio, forse di più. È esattamente come il mio.

Alle sei e cinquantasei il nemico è pronto, sta fermo a un metro da me. Mezzo piede a testa: condividiamo la mattonella giusta, quella con il graffio a forma di cuore spezzato, lì dove entrambi sappiamo così bene che l’alito pesante della metro ci coopterà all’interno del primo vagone. Dalle sue cuffie giganti esce sempre e solo un quartetto d’archi in Mi minore di Beethoven. Penso si tratti dell’Opus 59, un insieme di brani inaccessibili ai più, oggi come allora. Tutte le mattine io ascolto lo stesso su Spotify. Stessi musicisti. Stessa interpretazione.

Credo che ogni uomo abbia un nemico. Il mio è un individuo elegante e pulito che ascolta ottima musica e ha molto da perdere nel sedersi in mezzo a tutta questa gente o, peggio ancora, nel rimanere in piedi a cercare un appoggio per le spalle. Il mio fa di tutto pur di non cadere, di non urtare il sudore e l’odore della gente che lo circonda, mischiare promiscuo la propria forfora con quella degli altri. Faccio lo stesso anch’io.

Oggi vince lui, di pochi attimi: di certo nemmeno un secondo intero. È sua, la sedia: la sedia che poggia sulla parete, la sedia dietro la quale non c’è spazio per appoggiarsi, la sedia a pochi centimetri di metallo dal conducente, la sedia singola. La sedia. È sua.

Eppure siamo vicini lo stesso, io e te; io e te ci capiamo in maniera assoluta. Un rapido sguardo, il solito, che di poco precede lo scandire d’ogni sei e cinquantasette d’un giorno feriale.

Occhi verso il pavimento estraiamo entrambi un piccolo taccuino dalla tasca posteriore dei pantaloni. Di nascosto l’uno dall’altro annotiamo il risultato del giorno: questa volta è un punto per lui. Secondo i miei calcoli – che in nessun modo posso verificare con i suoi, ma so essere perfetti – per questo mese il nemico è in vantaggio: nove sedie buone a quattro. Per l’anno in corso il titolo è suo matematicamente, ha ottenuto in media postazioni più vantaggiose di me per sette mesi contro i soli tre dove ho dominato io. Anche contando gli ultimi sedici anni è in testa lui: nove a sette. Il grande rammarico è di non avere le statistiche degli undici anni precedenti, dove credo di aver trasmesso alla storia la mia migliore performance. Certo, prima dell’operazione al menisco. Credo non le abbia nemmeno lui: di certo non posso chiederglielo: mi prenderebbe per pazzo! Non è con una richiesta come questa – un favore – che sogno il primo contatto verbale con il nemico.

La maggior parte dei giorni lavorativi io vesto pulito: lavo le cose a mano investendo gran parte del mio tempo libero e stiro le camicie personalmente con tecnica teutonica: ho molto da perdere. Sento le maniche della giacca odorare ancora d’Altro quando, finalmente libero dal vagone e dal labirinto della stazione, mi affaccio in strada. Davanti a me, all’uscita del sottopassaggio, c’è sempre il grande palazzo che ospita la sede della mia impresa. Il nemico non scende qui: si fa al minimo una fermata in più e al massimo quattro, dove so essere il capolinea. In ascensore apro il taccuino per la seconda volta, cerco il capitolo dove provo a stimare quanto più importante sia per lui ottenere quel posto a sedere rispetto a me. È una ripassata veloce, come ogni giorno: se deve farsi quattro fermate in più il nemico ha molto da perdere. Davvero molto da perdere. Forse questo spiega la sua propensione alla vittoria: la motivazione è dalla sua parte. Il nemico vince l’otto per cento in più delle volte ma si fa quasi il settanta per cento in più di strada. Mi sento molto meglio, come sempre a quest’ora: offro il caffè ai colleghi, l’aroma mi aiuta a digerire gli effluvi della metro.

Mentre tutti parlano, io penso all’altra ipotesi, quella per la quale il nemico avrebbe una sola fermata da fare in più: il modello mi dice che saremmo in una situazione di sostanziale parità.

Sorseggio la bevanda. Io e il nemico siamo uguali: i vestiti che indossiamo sono puliti. E ascoltiamo ottima musica. Metto giù la tazza, pago. Vado a lavorare.

Un racconto di Gabriele Esposito

Illustrazione di Michele Antolini

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