La chiamavamo la roulette russa

A guidare lo scooter era sempre Daniel. Dietro – attaccati alla sella, o con le mani poggiate sui suoi fianchi magri e nervosi – Pao, Giorgio, oppure io. Prendevamo la rincorsa all’altezza del cartello stradale che indicava lo stop a centocinquanta metri. “Aspetto il tuo vai” diceva Daniel. E, al nostro segnale, partiva, piegato in avanti, la manopola dell’acceleratore girata al massimo. Io restavo con gli occhi chiusi, Giorgio diceva di guardare a terra: vedeva sfilare le lettere bianche dello Stop, le righe della mezzeria. “Se hai superato quelle, sei già di là” diceva. Essere di là voleva dire che avevamo superato l’incrocio – alla massima velocità, senza fermarci, senza guardare – e che nessuna macchina ci aveva falciato.

In chiesa c’è poca gente, sono occupati solo i primi tre o quattro banchi. Riconosco qualche parente, alcune delle anziane che non si perdono un funerale: le ricordo da quando venivo a fare il chierichetto, sono solo più vecchie e curve. Emma non c’è.

Fuori fa caldo, ma qui c’è quella temperatura tipica delle chiese – l’umido dei marmi, delle navate in penombra illuminate dalle candele – che ti fa sudare e rabbrividire allo stesso tempo. Tiro le maniche della camicia sopra i gomiti e credo che una macchia di sudore si stia allargando sulla schiena. Il prete scende dall’altare, gira attorno alla bara con l’incenso e l’acqua santa. Le vecchie cantano come se fosse il loro unico compito al mondo.

La chiamavamo la roulette russa. Il nostro paese è attraversato da due strade. Una è quella da cui ci lanciavamo: lunga un paio di chilometri, fosso da entrambi i lati, sfiora la piccola piazza, la chiesa e il campo da calcio per continuare oltre, verso le villette, i casolari e i campi. Dopo lo stop tutto si ripete identico, come in una clessidra in cui il centro del paese non sia altro che lo strozzo a metà: il bar, l’alimentari e, di nuovo, la distesa dei campi. La taglia una provinciale che ci ricorda che non siamo nient’altro che un piccolo comune che fa da raccordo a due paesi più grandi, quelli dove ci sono i supermercati e le fabbriche. A scuola, in città, ci chiedevano: “Com’è che si chiama, il vostro buco di culo di paese?”. Eccolo, era quello. Le nostre case stavano tutte su quella strada che iniziava e finiva con i campi, dritta come una canna di pistola puntata su chi incrociava la nostra traiettoria.

Fuori dalla chiesa ci avviciniamo alla madre di Daniel. Ci riconosce, abbracciandoci ci bacia sulle guance. Ha i capelli sistemati di fresco ed è truccata con attenzione. Si passa il fazzoletto che tiene strizzato nella mano sotto gli occhi e ci trattiene per le braccia con troppa forza. Piangere adesso mi salverebbe dalla vergogna di non esserci ancora riuscito.

“Siete sempre stati dei bravi ragazzi”, dice. Ma non lo siamo, e non siamo più nemmeno dei ragazzi.

Il proiettile eravamo noi. Quante volte l’avremo fatto? Decine. Per noia, perché avevamo bevuto o fumato, perché non c’era niente di meglio da fare, per una sfida, per far vedere a una ragazza quanto fossimo coraggiosi. Perché eravamo giovani.

Ci penso, a volte, guardando Alessandro e Marta giocare in giardino. Verrà il momento in cui io e mia moglie non potremo più controllarli, in cui saranno adolescenti. Ci sarà, anche per loro, quella forza sovrannaturale che ci ha protetti? La immagino come un occhio superiore che, dall’alto, stringe sempre di più – sulla pianura padana, sulla nostra città, sul nostro piccolo paese, su quell’incrocio nel momento esatto in cui bruciamo lo stop sul motorino di Daniel – e decide di salvarci sempre: la provinciale rimane vuota, ci sono solo fari in lontananza, i musi delle auto ci evitano per un soffio, i furgoni inchiodano e lasciano odore di gomma bruciata. Ma noi siamo già di là. 

Al cimitero c’è Emma. Sta in disparte, a qualche metro dal gruppo riunito attorno al sacerdote. La salutiamo, mentre l’odore dell’incenso pizzica le narici. Tiene le braccia incrociate sul petto e inspira a scatti con il naso – un modo di piangere senza lacrime. Mi sembra invecchiata in poco tempo, ma poi penso che non è poco tempo, e che sono anni che non ci vediamo. “Si può essere incazzati con uno che è morto?” ci chiede. Le metto una mano sulla spalla. Forse vorrebbe aggiungere qualcosa: si infila il pollice in bocca e si morde l’unghia.

Per anni abbiamo semplificato, piegato gli eventi per far coincidere causa ed effetto. Emma aveva lasciato Daniel, Daniel era tornato a vivere con sua madre al paese. Noi ci eravamo sposati, trasferiti, avevamo avuto dei figli, la compagnia si era sfaldata. Poi Daniel era caduto dall’impalcatura. Non poteva più lavorare, ma l’invalidità gli bastava. E in quelle giornate improvvisamente vuote aveva preso a girare da un bar all’altro. Mentre noi sceglievamo gli asili, pensavamo alle promozioni sul lavoro, lui passava le giornate a bere. E bere era diventato un problema. Al pranzo per il battesimo di Marta era stato imbarazzante, tanto che mi era toccato prenderlo in disparte. “Stiamo festeggiando” aveva detto lui. A fine serata l’avevamo caricato in macchina e riportato a casa. “Siete i miei amici”, ripeteva sul portone, ma nessuno se l’era sentita di salutarlo o abbracciarlo davvero.

Mia moglie mi chiama quando sono sulla strada del ritorno. Sento la voce dei miei figli in sottofondo. Le dico che sarò a casa in meno di un’ora. Mentre guido, mi sembra che la fede stringa troppo l’anulare. Prima che calassero la bara nella fossa mi è venuto voglia di toccarla. La fede ha impattato con il legno, ha prodotto un suono strano, che mi è sembrato forte e fuori luogo, e strisciando via la mano mi sono ricordato di quando incidevamo sui tavoli del bar i nostri nomi con le chiavi dei motorini. Ho fatto un passo indietro, restando con il palmo a mezz’aria.

La chiamavamo la roulette russa e i proiettili eravamo noi. Al di là dell’incrocio potevano esserci Giorgio e Pao ad aspettarci, una ragazza che ci aveva guardato con le mani premute sulla bocca. Qualcuno con cui avevamo fatto una scommessa, oppure nessuno. Ma non importava. Io stavo con gli occhi chiusi, sentivo la strada andare, riconoscevo le buche, il piccolo salto dopo lo Stop che mi mozzava il fiato. Quando li riaprivo, Daniel mi guardava con quel sorriso di chi è sicuro che niente possa andar male.

A volte mi sembrava di sentirlo, quello sguardo superiore che ci sorvegliava dall’alto. E sentivo che, anche avesse cercato, non avrebbe trovato nessuno più felice di noi – lì, nel mezzo della pianura padana, in un buco di culo di paese, poco dopo un incrocio – nessuno di così attaccato alla vita come noi quattro, insieme, in quell’istante.

Un racconto di Massimiliano Maestrello

Illustrazione di Emanuela Sandu

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