Prossima apertura

Intendiamoci, non è che mi dispiaccia il mio lavoro, presenta dei rischi, ma fino a oggi non è mai successo niente ed è chiaro che non mi metterei a fare l’eroe in caso di rapina. Per quanto mi riguarda possono prendersi tutto ciò che vogliono lì dentro. Possono anche andarci un po’ pesante con il direttore, se serve. Mi fanno solo contento.

Che poi il pericolo non è un problema di per sé, anzi, quando aprirò la mia agenzia saranno le indagini ad alto rischio la specialità della casa

Eccola una buona ragione per mollare il posto da sorvegliante: un’agenzia di investigazioni tutta mia. Il nome è già pronto, ho anche stampato il primo lotto di biglietti da visita.

Qui in banca ho avuto la possibilità di affinare il fiuto. Dalla mia postazione, attraverso i vetri semi oscurati, osservo ogni giorno decine di clienti transitare nell’area di accesso e aspettare il via libera. Posso vederli agitarsi per l’attesa prolungata, frugarsi nelle tasche, cercare un cenno di consenso senza però riuscire a inquadrare bene il mio volto. Quando sono lì ho il tempo di studiarli, di tracciare un profilo. Al momento di sbloccare le porte mi sono già fatto un’idea circa professione, posizione economica, stato d’animo.

Molti arrivano con l’intenzione di farsi sentire, di pretendere qualcosa. E se ne vanno con una frustrazione atroce, specialmente se devono vedersela con il direttore. Perlomeno fino a poco tempo fa.

Ci ha sempre goduto a essere odioso, quello. So cosa dico, da ragazzi abitavamo vicini e lui se la faceva con mia cugina. All’epoca le nostre case erano divise solo da una staccionata in legno ma lui non ha mai pensato di stringere amicizia con me, anzi una volta lo sentii interrogare i genitori su quando intendessero piantare la siepe di separazione. Lo fece ad alta voce, per essere sicuro che ascoltassi anch’io dal mio giardino.

Per non parlare di quando si presentò in filiale in qualità di nuovo direttore.

«Non dire che ci conosciamo» mi avvisò con fare mafioso.

Così devo sopportare che si aggiri tra gli uffici con gli abiti firmati e le scarpe che scricchiolano, lasciandosi dietro una scia di dopobarba e guardando tutti dall’alto in basso. Per fortuna che invece di abbozzare io ho battuto le mie piste, gettato qualche esca. E da un po’ di tempo il direttore non può più permettersi certi atteggiamenti con me, perché sa che conosco il suo punto debole.

Ha un solo testicolo.

Me l’ha spifferato mia cugina, dopo accurata torchiatura.

Per di più ho la pistola di ordinanza sempre bene in vista e ho capito, con il tempo, che il signor direttore guarda qualsiasi arma come fosse un pericolo vagante per l’unico gioiello di famiglia. L’ho visto turbarsi anche di fronte a tagliacarte, forbici o altri utensili agitati troppo incautamente nell’aria.

La svolta nei nostri rapporti c’è stata qualche mese fa quando mi ha chiesto notizie di mia cugina, probabilmente per controllare il mio livello di confidenza con fonti beninformate. Nel rispondere mi è venuto istintivo di guardargli lì, sotto la cintura, avvalorando i suoi timori. Ha tirato indietro le orecchie come una lepre.

«Mi raccomando, non sia troppo duro con i clienti o finirà col mettersi nei guai» ho detto tanto per cambiare discorso «Il mondo è pieno di giustizieri.»

Stavo solo fingendo di voler dare un consiglio, più che altro per distoglierlo dai suoi pensieri, ma lui deve averlo interpretato come una mezza minaccia. Tanto più che stavo tamburellando con i polpastrelli sulla fondina.

Vista la reazione c’ho preso gusto e dopo la chiusura gli sono tornato sotto.

Il direttore era appena entrato nella sua berlina e stava giocando col display multimediale. Gli ho fatto cenno di abbassare il finestrino. «Ha sentito della rapina alla posta centrale?» ho chiesto dopo essermi chinato.

«So che un impiegato è rimasto ferito» ha risposto.

«Beh, quando fischiano le pallottole è già tanto se non ci rimetti qualche organo» ho concluso tirandomi su e stringendo le mani sul cinturone.

Da allora la musica è cambiata, ho progressivamente acquistato potere, e non parlo di benefici personali, dico solo che ormai riesco persino a influenzare le politiche della banca nei confronti dei clienti. Finanziamenti, gestione di insolvenze, piani di ammortamento. Sul serio. A volte vedo il direttore parlare con qualche povero diavolo, negargli un prestito o una dilazione di pagamento con quei suoi movimenti incontestabili, sordi, salvo poi gettare un’occhiata verso la mia cabina. La mia figura dietro i vetri stratificati deve apparirgli inquietante dal momento che non capisce se lo stia osservando o meno.

Allora cambia atteggiamento, suda, comincia a mostrarsi possibilista. Poi torna a sondare la mia mole scura e intimidatoria.

«Sembri una mosca gigantesca lì dietro», mi aveva detto una volta un impiegato della banca.

E proprio come una mosca sfrega le zampe per attivare le funzioni sensoriali, in quei momenti mi piace coccolare la mia calibro nove, lisciarmela per bene e metterla a suo agio in modo che trasmetta le giuste vibrazioni al mondo. Soprattutto a chi dico io. La accosto al vetro lasciando intravedere la sua magnifica sagoma soggiogante. E guarda caso la faccia del direttore si affloscia, rossa. I suoi gesti si fanno via via più sconsolati. A niente serve allentarsi il nodo della cravatta o fare profondi respiri. A quel punto è andato, cotto. Talmente confuso che spesso finisce per concedere quello che gli viene chiesto. E non mi costa nulla. In pratica mi basta sorvegliare la sua palla oltre alla clientela in ingresso.

Comunque è deciso, ho già fatto richiesta alla prefettura e sto iniziando a distribuire i biglietti da visita. È arrivato il momento di arginare questo spreco di potenziale.

«Le mosche sono essenziali per l’equilibrio di interi ecosistemi», avevo risposto quella volta all’impiegato.

Un racconto di Daniele De Serto

Illustrazione di Marco Pellino

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