Sussurri inutili

Io ero lì, quando il vecchio Barbargento era impazzito. Non che il capitano fosse mai stato del tutto sano di mente, intendiamoci. Una volta l’ho visto rinunciare a un abbordaggio perché il colore delle vele gli dava i brividi, roba che avrebbe assicurato un paio di giri di chiglia a qualunque altro comandante. Eppure, da quando sono salito a bordo della Perla della secca,non ha mai sbagliato un colpo. Per questo l’equipaggio gli perdonava tutte quelle superstizioni, aveva imparato a fidarsi del suo istinto. Conosceva il mare come se ci fosse nato dentro e alcuni dicevano che fosse figlio di una sirena. Chiunque abbia conosciuto sua madre una baldracca stonata come una campana che ha finito i suoi giorni annegando nel porto di Nassau perché troppo ubriaca, si è fatto più di una risata al pensiero. In ogni caso non avrei fatto nulla per mettere a tacere quelle voci, essere circondati da un po’ di mistero aiuta. Di certo ha aiutato noi, tanto che alcune navi si arrendevano appena riconosciuto lo scheletro della polena.

Cominciavamo ad avere una certa fama, insomma, e abbiamo perfino ricevuto una lettera di corsa dalla corona inglese, ma il nostro rapporto è durato poco: quando si sono accorti che avevamo semplicemente smesso di lasciare testimoni sulle navi inglesi non l’hanno presa bene. Le monete di Sua Maestà hanno sempre avuto un suono particolarmente piacevole, per me. È a quel punto che hanno cominciato a darci seriamente la caccia. Seguendo l’intuito del capitano ci siamo diretti verso sud, fino a scovare un isolotto fuori dalle rotte, che avrebbe potuto accoglierci per un po’.

È lì che l’abbiamo trovato.

Ora dovrebbe partire la descrizione di una caverna, di uno scrigno di pietra e di un teschio cesellato di iscrizioni, con due gemme incastonate nelle orbite. Quindi il racconto andrebbe avanti con gli assalti della nostra banda di pirati, guidati da un capitano che sembra aver acquisito doti profetiche: sa sempre dove sono le navi più cariche e come sfuggire alla marina inglese. Tiene il teschio attaccato alla cintura, dentro un sacchetto che accosta all’orecchio per ascoltare il prossimo suggerimento. Si prosegue un po’ con le scorribande marine dei nostri e poi si arriva a una conclusione che dovrebbe essere a sorpresa ma, come la maggior parte dei twist finali, è solo banale. Quanto odio i finali a sorpresa.

La struttura c’è, e potrebbe venir fuori un racconto leggibile, ma le parole non escono. Non sono mai stato il massimo, come narratore, e in questo momento all’interno del mio, di cranio, c’è solo l’immagine di un teschio che sussurra, e non so davvero cosa farci. Nei pochi racconti che ho scritto, qualcosa di decente c’è sempre stato, almeno per me, ma a ’sto giro il risultato sarebbe un racconto inutile, che forse è ancora peggio di uno brutto.

La verità è che scrivere non è per tutti. Sicuramente non è per me. Stare al centro della scena non è per me. Mi diverto dietro le quinte, ad aggiustare l’illuminazione, la scenografia o la sceneggiatura. Ecco, io aggiusto. Se davanti ho qualcosa posso lavorare, rimodellare, limare e, si spera, migliorare il tutto. Cosa puoi migliorare di un foglio bianco?

Eppure lo vedo, il mio teschio. È lì, sul tavolo. Il sole illumina la calotta cranica e le due pietre nelle orbite, un rubino e uno smeraldo. I segni che ricoprono l’osso sono simili alle rune norrene nella forma, ma seguono un andamento verticale di lettura, alla giapponese. I denti sono perfetti e per assurdo sono la parte più bianca di tutte. Girandolo tra le mani mi accorgo che il retro è bucato. Qualcosa di pesante e di forma regolare, un martello o un piccone probabilmente. Colpito alle spalle, nel modo più efficiente possibile. Per completare il tutto avvicino la dentatura all’orecchio, per sentire i sussurri che dovrebbero uscire da quelle vecchie ossa. Niente. Non una parola, un indizio, un bisbiglio. Che me ne faccio di un teschio che non parla? Mi accontenterei di qualcosa di stupido, tipo le battute che faceva Murray in Monkey Island. Qualunque cosa potrebbe sbloccare la situazione. Invece lui se ne sta immobile sul mio tavolo. È solo un cranio bucato, inciso e ingioiellato. E anche in questo caso c’è veramente poco da migliorare. Una volta conteneva il cervello di qualcuno, adesso è un fermacarte di design. E a chi interessa un racconto sui fermacarte? Perché di certo non mi metterò a scrivere di design.

Quasi dimenticavo, ovviamente i pirati dell’incipit sono tutti morti. Impiccati e lasciati appesi fino a quando non si sono ridotti a scheletri, che ondeggiando nel vento danno vita a tanti altri crani sussurranti. Giusto per non lasciarvi troppo sulle spine.

Illustrazione di Nora

Stefano Rigoni

Stefano nasce a Parma il due maggio del 1992, l’esatto giorno previsto dai medici, e quella sarà l’ultima volta in cui si presenterà puntuale ad un appuntamento. Frequenta il liceo classico, dove i professori affermano che le sue traduzioni non rispecchiano per nulla l’originale, ma almeno sono piacevoli da leggere.

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