Trappola

La prima volta che ho fischiato in pineta avevo sedici anni. Ero con Anna, che aveva appena preso la patente. Il cielo, il mare e il cemento intorno a noi erano un’unica macchia scura da cui spuntava una fila di scogli bianchi e lucidi.

Dopo qualche minuto, da dietro i cassonetti è sbucato un ragazzo poco più grande di noi con la faccia mangiata dall’acne – o dalla stagnola – e un pacchettino delle dimensioni di un’unghia. Si è infilato la nostra banconota nelle mutande ed è sparito.

Noi abbiamo scartato il “regalo” con il salmastro che si appiccicava ai polpastrelli e ci siamo sistemati un pezzo a testa sulla mano, con il pollice e l’indice a forma di “C”. Ho sniffato e ho tirato indietro la testa come avevo visto fare nei film. La serata è proseguita come al solito: decine di sconosciuti hanno offerto ad Anna un cocktail dopo l’altro, e lei li ha divisi con me.

Da quella notte sono passati dieci anni. Adesso mi sveglio con il ciabattare dei turisti che rientrano dalla spiaggia, parlano tedesco o milanese e puzzano di doposole. Lascio sempre la finestra aperta, anche se dà sul marciapiede e non ho le tende. In cucina mia madre prepara le lasagne o il caffè, a seconda dell’ora. Mio padre è a lavoro oppure al bar oppure davanti alla tv. Per trovare la coca non ho più bisogno di andare in pineta. Mi basta aprire l’armadio, dove ho una piccola scorta.

Ne sono cambiate di cose. Anna, da quando è tornata dalla comunità, non la vedo più. So che lavora come cameriera nel ristorante di sua zia e che tutto sommato sta bene. Certo: lavora dodici ore al giorno da maggio a settembre, senza malattia né giorni liberi e, con quei ritmi, cazzo se ti va un tiro a metà servizio. Ma Anna è pulita, Anna non parla più con noi e non ci vuole neanche vedere. Peggio per lei. Io stasera esco con Marco e troveremo qualcosa da fare, lo troviamo sempre.

Mi sono appena svegliato. Resto immobile nel letto a fissare le costellazioni di muffa sul soffitto. L’orologio segna le 18:45. Sento mamma armeggiare in cucina e le pale del ventilatore ronzare come mosche. Vorrei dormire ancora per non affrontare la giornata, invece scosto le lenzuola bagnate di sudore e mi trascino in bagno. Piscio e mi lavo la faccia con l’acqua fredda. Quando arrivo da mamma non mi va di guardarla. Lei mi fa le solite domande: a che ora sei tornato stamani, con chi eri, esci anche questa sera. Le rispondo con mezze verità e mi infilo un paio di pantaloni mentre mangio gli avanzi del pranzo. Appena finito fumo una sigaretta alla finestra e sbircio mamma che guarda la tv e sbuccia le patate. Ha i capelli grigi e la faccia dello stesso colore. La saluto e la lascio sola in una casa vuota e umida che è come una foresta pluviale o come una sabbia mobile.

Marco mi aspetta al bar, anche se non sono sicuro che aspetti me. Iniziamo con qualche birra e andiamo avanti fino a che il sole non scompare del tutto. Ci spostiamo di pub in pub e nei bagni stendiamo una pista dopo l’altra, fino a che non abbiamo più niente da stendere e ricominciamo a bere. Le tedesche ci sfilano accanto bevendo mojito e pensano che questo sia il paradiso. Vanno a ballare nelle discoteche sulla costa, dove entri solo se hai la camicia e qualche centone da spendere. Io e Marco ci scrocchiamo sigarette a vicenda e non so se ci stiamo divertendo. I locali cominciano a chiudere, ma noi non vogliamo ancora tornare a casa. Ripieghiamo sulla cementeria abbandonata, dove muoiono tutte le nostre serate da quando siamo adolescenti. Marco ha una cassa di birre in lattina nel bagagliaio e io posso recuperare qualche pezzo a testa. Parcheggiamo nel piazzale e ci arrampichiamo al secondo piano facendo luce con la torcia del cellulare. Ci fermiamo solo quando arriviamo al terrazzo vista mare. Marco si siede a terra con le gambe incrociate e io lo imito.

“Hai saputo di Anna?”

Faccio di no con la testa.

“Ѐ incinta.”

Povera creatura.

“Ce la vedi, come madre?”

Faccio di nuovo no con la testa perché Anna non la vedo più per niente.

“In effetti non credo sia proprio voluto. Poi ti immagini i casini con il lavoro? Non ha mica la maternità.”

“Ѐ in trappola”, dico, e guardo la città punteggiata di luci allargarsi sotto di noi.

Marco annuisce e poi non diciamo più niente. Aspettiamo l’alba e finiamo le birre e la coca. Vediamo la provincia dormire e poi svegliarsi, l’orizzonte comparire piano mentre la brezza frizzante del mattino ci pizzica il naso. Penso a mia madre, sola in una cucina buia, che prepara il caffè e ne tiene da parte una tazza per me.

Mi appoggio al parapetto senza sporgermi troppo per paura di buttarmi giù.

Marco si alza e mi raggiunge: “Ѐ ora di tornare a casa.” La sua mano umidiccia sulla mia spalla mi fa rabbrividire.

Il profilo della costa è una striscia tagliente come una lama. Sembra lontano e irraggiungibile, ma non c’è altro posto dove andare. Diamo le spalle alla nostra città e le andiamo incontro.

Un racconto di Francesca Mattei

Illustrazione di 2-Rxst

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