Il giorno in cui ho scoperto chi ero

Non ho mai capito come guardare mio padre.

Avevo imparato troppo presto che non avevo i suoi occhi, che il mio naso era quello di mamma ma i miei piedi lunghi e magri non appartenevano a lei e nemmeno a lui. Era stata mamma ad insegnarmelo. Una goccia per volta, la striscia giallognola nel lavandino che non avevamo mai riparato. Lo faceva di sera, quando ci mettevamo sul divano noi tre in fila davanti alla televisione. Lo faceva di più nei giorni di pioggia che in quelli di sole. Cercava le differenze: “Non somigli per niente a tuo padre” diceva con la voce ruvida per le sigarette che fumava di nascosto in bagno. Lui, mio padre, non rispondeva, ogni tanto se mi trovavo abbastanza vicino, la testa appoggiata alla sua spalla, gli sentivo la saliva scendere nella gola come un nocciolo duro.

Poi mia madre era morta, in uno di quei giorni di pioggia. All’improvviso. Un minuto prima c’era, un minuto dopo se ne era andata. Avevo visto mio padre cercare di sollevarla dal pavimento, provare a farla respirare ma non era servito. Aveva un vestito verde con una cintura nera in vita. Era bella. Avevo i suoi stessi capelli, dicevano, rossi e crespi. Nemesi, il mio nome lo aveva scelto lei, Nemesi faceva per intero, ma in casa mi chiamavano Nene, ero Nene anche fuori, per gli amici o per chi mi conosceva solo di vista.

Non mi ero mai chiesta cosa significasse, finché non arrivai al liceo. Era più o meno aprile della quarta ginnasio quando capii chi ero. Mia madre era morta da due anni.

Tornai a casa da scuola, papà stava cucinando per me una pasta al pomodoro. Arrivava nelle sue pause pranzo, pedalando veloce, per prepararmi un piatto caldo. Lo trovavo in cravatta con il grembiule bianco del Consorzio Grana Padano che gli aveva regalato il nostro salumiere.

“Perché ho questo nome?”

“È una storia lunga” rispose. Gli sentii la saliva scendere nella gola come un nocciolo duro anche se non ero abbastanza vicina.

Me lo raccontò una sera di qualche anno dopo, forse pensando che avessi l’età giusta per capire. Io e lui sul divano, avevo la febbre e un plaid rosa in cui mi ero arrotolata come un baco, mi sembrava di non avere le gambe. Non ricordo cosa stessimo guardando in televisione, forse qualcosa che non piaceva a nessuno dei due, forse qualcosa che sarebbe potuto piacere alla mamma. Certe sere, girando la testa a destra, mi stupivo di non ritrovarmela lì, il suo profilo netto illuminato dallo schermo. Raccontò senza guardarmi: aveva perso la testa per Giulia prima che io nascessi, dopo che lui e mamma erano sposati da tre anni. Giulia era meno bella di mamma, meno difficile di lei. Non era una storia di letti, era una storia di nuvole e cieli. Era questo che mamma non aveva mai accettato. Sarebbe stato meglio se Giulia fosse stata bellissima anziché normale. Lo aveva scoperto perché qualcuno li aveva visti prendere un caffè in un bar del paese vicino e qualcun altro glielo aveva detto per sapere che faccia avrebbe fatto. Era esplosa la rabbia, la disperazione aveva frantumato tutto. Poi si era chiusa in bagno per ore senza uscire. C’erano pastiglie, lamette in bagno, come in tanti bagni. Papà aveva lasciato Giulia, “Non la vedrò mai più” aveva promesso. Ho sempre pensato che mio padre fosse un uomo buono senza sapere bene cosa volesse dire.

Respira male da giorni. È sdraiato sul nostro divano e non so come guardarlo.

Non ho i suoi occhi.

I suoi capelli.

Le sue labbra.

I piedi neppure.

Lui è alto, io piccola.

Mi manca la sua intelligenza ordinata.

Non sono una persona buona.

Il mio nome è Nemesi. So che sono nata da mia madre per vendetta.

“Sono incinta” ha detto a mio padre “8 settimane e 3 giorni”.

Aveva calcolato tutto, misurato la temperatura basale, controllato la consistenza del muco. Era andata a casa di Achille tre giorni di fila, tre giorni utili. Achille abita due vie dopo la nostra, c’è nelle foto del matrimonio di mamma e papà. Al tavolo dei testimoni. Certe volte mi capita di incrociarlo, ha un modo strano di camminare come avesse una gamba più corta dell’altra, non mi ha mai salutata.

Non era stata una storia di cieli, solo una storia di rabbia.

Io sono la figlia di mia madre, ma vorrei che qualcuno mi dicesse come devo guardare quell’uomo che respira a fatica. È l’uomo che è rimasto nonostante me.

“Nene!” la voce sottile resta la sua, vuole dell’acqua. Gli tiro su la testa, avvicino il bicchiere alle sue labbra, lo inclino poco, non voglio bagnarlo. Poi, quando ritrova il cuscino, mi guarda come mi ha sempre guardata e dimentico il mio nome ancora una volta.

“Sono qui”, vorrei dirgli ma ho i suoi stessi silenzi.

Allora accendo la televisione e mi siedo vicino ai suoi piedi che sono avvolti dentro un plaid a quadri, come un baco.

Un racconto di Gaia Gentili

Illustrazione di Maria Chiara Cannelli

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