L’amore feroce

Lui mi dà un morso sul fianco, affonda i denti nella pelle, stringe la mascella. Io mi lamento e ridendo cerco di dimenarmi per raggiungere l’altro angolo del letto. Poi mi giro, gli do un bacio e gli morsico il labbro inferiore. Tengo la carne morbida e umida per un attimo tra gli incisivi, poi la lascio andare.

«Perché mi mordi?»

«Perché te lo meriti.»

«Mi sono stufato di vedere piccioni morti, sono stufo, sono stufo!»

Con un ramo spezzato inizia a colpire il cadavere di un piccione che giace immobile sul bordo della strada. Il suo cane l’ha fiutato, gli si è avventato addosso, ha conficcato i denti nella carne, ha iniziato a strappare. Il vecchietto è arrivato in fretta, con il passo barcollante che gli permette la sua età avanzata. Ha afferrato il collare del cane feroce, gli ha dato due strattoni e l’ha allontanato, mentre la bestia continuava a digrignare i denti, le mascelle vuote ma sporche di sangue.

Il vecchietto ramazza via il cadavere a colpi di bastone, spingendolo verso un dirupo, fino a che il corpo non cade a strapiombo nel mare, scompare, inghiottito dalla schiuma delle onde, segnate adesso da una scia di sangue rosso.

Il cane continua a girare in tondo, eccitato dal gusto della morte, della selvaggina, della carne fresca. 

Io faccio finta di nulla, ma un paio di zampe si appoggiano alle mie gambe nude, un muso sudicio si strofina contro il bordo traforato del mio vestito bianco.

«Semola! A cuccia! Basta!»

Troppo tardi. Sento il suo respiro affannato, il battito del suo cuore a mille, come se i polmoni, le vene, tutto stesse per esplodere dentro a quell’organismo di nervi tesi fino allo stremo, pronto a scattare, leggero ma solido.

«Mi dispiace signorina, è che, sa, qui sparano ai piattelli. In realtà, più che i piattelli rotti, sono i piccioni morti a cadere in acqua. Piogge di uccelli, corpi che precipitano in acqua, in continuazione, a ogni ora del giorno. Non ne posso più.»

Davanti a noi si apre uno spiazzo assolato, coperto di selciato fine, polvere che si solleva alla prima folata d’aria; dietro un basso muretto, il mare, blu, luccicante, a perdita d’occhio.

Il bordo traforato del mio vestito bianco è coperto di sangue.

Camminiamo lentamente, non parliamo, nel silenzio ascoltiamo il rumore lento e ritmico delle onde sul bagnasciuga.

«Cosa ti è successo al vestito?» mi chiede dopo un’infinità, e quella domanda è un coltello lanciato nel vuoto.

«Un cane mi si è strofinato sulle gambe dopo aver fatto a brandelli un piccione morto.»

Torna il silenzio. Camminiamo. C’è qualcosa che lui vorrebbe dirmi, e c’è qualcosa che io vorrei dirgli. Qualcosa di cattivo, di estremamente cattivo. Lui vuole ferire me, e io voglio ferire lui, è questo il punto a cui siamo arrivati. Dopo tutto l’amore, tutto il tempo, tutta la tenerezza, non è rimasto altro che l’istinto primordiale di difenderci attaccando.

«So che hai un altro, non credere che non lo sappia» dice.

Lo guardo con gli occhi sbarrati. Sta parlando sul serio. Sento un rumore dentro di me, come un accartocciarsi, e penso sia quello il rumore che deve fare un amore che si scontra con un altro amore all’interno di uno stesso corpo.

«So che non mi ami più» dico.

D’estate le cose marciscono e imputridiscono più in fretta. Il freddo congela, mantiene intatto. Il caldo scioglie, disfa, disgrega. D’estate la puzza di un cadavere si sente di più, come tutti gli altri odori, esaltati dai raggi di sole. D’inverno il sangue si rapprende più in fretta, si coagula, si trasforma in una macchia scura, leggermente argentata di ghiaccio. D’estate brilla, rosso e vivo, liquido mentre continua a scorrere, inarrestabile, fluido.

«Cos’hai intenzione di fare?»

«Tu cos’hai intenzione di fare?»

Mi sembra di sentire l’odore del pelo bagnato del cane con la bocca insanguinata e del cadavere del piccione in putrefazione.

«Immagino che le cose finiscano qui.»

Non sono io a dirlo, anche se sono io a pensarlo. Lo dice prima lui, fermandosi improvvisamente e voltandosi a guardarmi con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni.

«Evidentemente doveva andare così» mormoro con poca convinzione. Vorrei dire qualcosa di ancora più brutto.

«Evidentemente mi hai preso in giro dall’inizio. Sei stata tu a rincorrermi. Non avrei dovuto ascoltarti e lasciarti lì dov’eri, con quel fidanzato sfigato che avevi.»

Il sole di mezzogiorno è accecante e perpendicolare sulle nostre teste. Sento un’ondata di rabbia salirmi nel petto e un nodo formarsi in gola.

«Evidentemente sì.»

Lo dico con tutta la cattiveria che ho in corpo, il tono più feroce che abbia mai usato in vita mia.

«Sei proprio una stupida» mi dice quasi ringhiando. Poi mi passa accanto, sbatte la sua spalla contro la mia e se ne va senza guardarmi.

Dietro di me, e davanti a lui, gli spari dei fucili dei tiratori al piattello. Conto fino a dieci, e penso a tutti i piccioni che tra pochi minuti pioveranno dal cielo per schiantarsi nel mare o sull’asfalto.

Il sangue sul bordo traforato del mio vestito bianco è ormai secco. 

Un racconto di Elena Ramella

Illustrazione di Maria Chiara Cannelli

Lascia un commento