Da domenica in poi

Domenica mattina, mi sveglio intorpidita, chiazze di luce e ombra, serrande sbilenche, polvere, piatti accumulati, acquetta nei piatti, croste di pane sbrindellate, briciole di cracker e cereali, plastiche informi sul tavolo. Petali di cenere ovunque. Sciabatto verde con la blusa lunga grigioperla, perché l’ho indossata se ero ubriaca, zig zag. Ho aperto la porta e mi sono inginocchiata. Ho vomitato anche l’anima. Siedo, fisso il vuoto, rifiuto l’invito di Viola a mangiare pesce, bleah. Il telefono risquilla. Andrea.

“Ok” rispondo, sfinita.

Gli apro, coi jeans sbottonati sotto la blusa scappo in bagno. Mi vergogno a farmi vedere boccheggiante da una notte disgustosa, con aloni Rorschach sulle guance a svelare miei dinamismi di personalità. Chiudo a doppia mandata, allo specchio mi sforzo di inquadrarmi. C’è troppa luce, mi schiaffo d’acqua il viso.

Lo ritrovo in cucina, ha messo sul fuoco un caffè e guarda se lo sporco tra i fornelli gli ha contaminato un polsino. Quando mi vede, indica il pamphlet dei film in cineteca dove né io né lui andiamo più da anni. Il suo finisce sotto la lettiera del gatto. Bevo il caffè e non so controbattere, il mio spicca tra le bollette che non ho pagato.

Le strade, la domenica, sembrano dimenticate. L’asfalto si espande e non sappiamo dove fermarci. Sorpassiamo il ponte arrugginito, i maxi cartelloni pubblicitari, Golden Lady, una mozzarella, il modello Audi A3; oltre il passaggio a livello ci fermiamo in un bar con la veranda opaca e tristi tavolini metallici sparsi a caso. Un treno fantasma passa dietro le nostre teste, o solo dentro la mia. Ci sono due clienti al bar, quello con lo stuzzicadenti in bocca beve un whiskey maleodorante.

Ordiniamo i panini, una coca con ghiaccio io, un succo di pompelmo rosa Andrea, a un barista che sembra sfatto da una seduta porno. Stravaccati sullo schienale metallico, io non parlo Andrea va a briglia sciolta. Con Nella tutto bene, collabora con l’etichetta X, il disco col gruppo una bomba, mi aveva mandato il brano, se non ricorda male, un titolo blues dove c’entravo anch’io, My Private Venus, il suo telefono pullula di messaggi: Nella ha comprato una lampada vintage per il monolocale dove respirano una l’aria dell’altro.

L’ho vista proprio ieri, prima di ubriacarmi.

Brutta così non l’avevo vista mai, sono sincera (i capelli sottili tirati sul cranio, i denti storti macchiati di rossetto, il naso lungo che sbuffava mentre rideva). Chi si somiglia si piglia e ieri, prima di congedarmi, Andrea ha sussurrato “Sei bellissima”. Avevo una semplice gonna blu.

Fuma Chesterfield, io annuisco, non sa nulla di me, cosa leggo guardo sento scrivo.

“Non mi aspettavo di vederti” dice, con un sorriso.

O non lo dice ma io “Dovevo andare al cinema” lo interrompo, pensando a un Leonardo di Caprio gonfio in andropausa. La nebbia alcolica mi divora nel suo diradarsi e dimentico il film che stavo per dire. Tanto finirebbe per constatare con la sua frase di circostanza, che vuol dire non me ne frega un cazzo dei tuoi gusti alto borghesi, con Nella (Oh, dolce Nellina!) condivido tutto, “Lo sai che so’ ignorante, signorì!”.

Mi chiama mi invita mi dedica la musica, Andrea su di me ha un effetto incontrollabile, un effetto che stamane definirei postmoderno: gli piace provocare la sensazione del “guarda ma non si tocca”. Che oggi suonerebbe: also postmodernism is dead insieme alla tua mamma rocca.

Ma lui parla, e sa di ammaliarmi, col suo riso sbieco, gli occhiali Woody Allen, le giacche vellutate anche d’estate, si ammalia ammaliandomi (che droga insostituibile divento, la conosce solo lui). Prego, con comodo, esplicita pure la tua vita, potresti non sbagliarti sai: piace anche a me, tornare qui senza risponderti.  

Il disco che incidi, bla bla bla, la tua musica, bla bla, la contingenza, non cambi mai musica, non cambi tu: nel postmoderno non c’è modo di cambiare, lo capisci? Quella stanchezza senza più inquietudine, senza agonia, quell’ombra di sospeso che aleggia rossastra – in testa – come le aspirine che non ho preso. Mi guarda e si innamora, di sé e della bruttona sgangherata, ostacolo diffidenza, per rimbalzo, che ne so, contro l’insondabile.

Spara, Andrea, corri, portati al riparo dal “sempre è troppo tardi”. Spogliami. Qui. Ora. Contro il palo nero e scrostato che per caso sto fissando. È la tua musica, non senti?

Il postmoderno rincara la sua dose, e hai – già – finito – il – panino.

Nel mio, il prosciutto suda macchie oblique, lo apro e cade a terra la fetta. Questa domenica ha un che di film western e io detesto i western, alla faccia di tutti i postmoderni che ne parlano in termini dostoevskiani.

Ho nel corpo una sbornia d’inconcluso ma mi sento felice. Io con lui, lei fra noi, che importa? Patti Pravo è la vera durata.

“A che pensi?” mi chiede quando si accorge che canticchio Pensiero stupendo e lo zoom piano si allontana da questo bar con la veranda opaca e i tavolini metallici, sparsi a caso in una strada, primo pomeriggio, deserta, di Bologna. Ho un viso. Me lo sento. Chiuso in ghigno.

“Forse vomito” barcollo, la zona industriale mi appare nel suo arso squallore. Non ho voglia di correre al cesso, buio e fetido da anni, secoli, epoche. Faccio in tempo a dirgli “sto male”. E sboccare, ai suoi piedi.

Un racconto di Maristella Bonomo

Illustrazione di Nora

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