Domenici_Canetto

Porta di servizio

Quando la Saturnia salpò da Palermo nel giugno del ’41, pensavamo di arrivare a New York nel giro di una settimana. Ma dopo cinque giorni di viaggio ci informarono che saremmo andati a Provincetown, in Massachusetts. Fu in quel periodo che mi ritrovai a pranzo con il più anziano degli ufficiali. A tavola, tra frammenti di cibo masticato a metà che gli cadevano di continuo infradiciando il piatto, la tovaglia e perfino il pavimento, mi raccontava che Provincetown stava di fronte al mare e che aveva tutto il fascino dell’Italia meridionale.

Rideva senza il timore di mostrare le foglie di lattuga e i resti di carne sulla lingua, in quella risata rivedevo mio nonno quando rincorreva i maiali da mandare al macello, con la cinghia di cuoio e i denti marci come i miei.

Succedeva allora che lì seduto su quella sedia con l’Atlantico tutt’intorno e davanti a me l’America, mi riguardavo girare in bicicletta le strade di campagna con le consegne fresche nel cesto che sbattevano a ogni buca, le vacche che ogni tanto muggivano al mio passaggio e i cani che mi venivano addosso. Sentivo i neonati nelle case che piangevano per la fame, il rumore nei campi che fanno gli uomini piegati dal sole e il fruscio dei completi di lino, bianchi, lavati con la cenere. Succedeva che con tutto quel cibo meraviglioso davanti ai miei occhi nessuno pregasse Cristo come facevamo in casa, e invece di vedermi nelle vie del Greenwich Village, mi ritrovavo a lanciare i sassi al muro della parrocchia della Vergine Assunta. Osservavo di nuovo la gente a messa la domenica mattina quando in chiesa si aprivano le finestre dei santi perché qualcuno sveniva per la fame e qualcun altro per il caldo. E su quella sedia, circondato da sconosciuti che non parlavano la mia lingua e non sapevano niente della Sicilia, mi mettevo a piangere.

La stessa sera l’ufficiale mi disse: Perché non vai a parlare con quelli del New Jersey? Non hanno figli e nessuno a cui lasciare testamento. Se sei un poco sveglio cerca di essere gentile con loro, non si sa mai.

Rimasi in silenzio. Avrei voluto domandargli qual era il modo giusto per essere gentile con dei ricchi del New Jersey ma avevo paura che mi considerasse scemo. Se mai ci avessi parlato prima o poi avrei dovuto sorridere ma a quel punto avrebbero visto le gengive rovinate.

Prima che andassimo a dormire, il cambusiere ci servì dei biscotti e del tè. L’ufficiale chiese del liquore all’anice e sottovoce mi richiese: Hai parlato con i ricchi del New Jersey?

No, non ancora.

Lui spalancò gli occhi e sbuffò.

Ma non vuoi fare strada?

Certo.

E allora vai a parlare con i ricchi del New Jersey, Santa Madonna. Magari ti prendono in simpatia e ti danno lavoro nella stalla, o preferivi stare in Sicilia a guardare le quattro pecore di tuo padre? Qui, che ne so, piano piano diventi qualcuno. Però devi essere sveglio.

Se ci fosse stata mia sorella Maria, lei sì, sarebbe andata dritta da loro e li avrebbe incantati, probabilmente l’avrebbero pure adottata o promessa in sposa a qualche figlio ricco.

Io con i ricchi avevo parlato solo per consegnare il latte e di solito mi dicevano di passare dalla porta di servizio. E se anche avessi detto all’ufficiale da dove venivo e come avevo preso i soldi mi avrebbe guardato con un’occhiata strana, tenendomi in pugno per tutta la vita.

Ma neanche con lui sapevo parlare e rimasi nuovamente zitto. Quando si hanno i denti e l’udito poco buono non si sa mai né che dire né che fare.

Il giorno dopo mentre leggevo mi addormentai e un marinaio mi svegliò per dirmi: Signore, le si sta bagnando il libro.

Signore. Venivo da un vicolo di Scopello e un uomo con i capelli grigi mi aveva appena chiamato signore. Stando alle regole non avrebbe dovuto neanche rivolgermi la parola, l’ufficiale mi aveva raccontato che i marinai comuni non erano autorizzati a parlare con i passeggeri.

Il marinaio si chiamava Carlo ed era un tipo particolare perché passava tutto il tempo a leggere come me e quando la nave attraccava, lui scendeva con il suo libro e leggeva davanti al molo mentre gli altri andavano a cercare le puttane o, se non ne trovavano, si rifugiavano nei bar dietro a superalcolici senza colore.

Carlo attaccò discorso sapendo di infrangere le regole. Disse che in tutto l’equipaggio ero l’unico che leggeva e che era disposto a tutto pur di parlare con qualcuno di letteratura. Poi mi chiese se conoscessi Frank McCourt. Dissi di no, i suoi occhi saltarono da me all’orizzonte.

Io quando leggo un libro inizio sempre leggendo l’ultima frase.

Perché?

Perché l’ultima parola è quella più importante.

Poi sul ponte comparve l’ufficiale e Carlo se ne andò premendo il berretto sui capelli sale e pepe.

Stavi parlando con quel tizio? Mi disse. Ti avverto non è una buona compagnia. Lo capisci da te, no? Avrà la mia età e continua a lavare i ponti delle navi. Strano però, con i marinai chiacchieri che è un piacere mentre per i ricchi del New Jersey non trovi mai un attimo di tempo.

Stavamo solo parlando di libri.

 

Di libri, ma senti. Sai quanto ti servono i libri in America? Dai retta a me, tieniti alla larga dai vecchi marinai. Lo sai che gente è. Parla piuttosto con chi ti farà del bene, e se proprio devi leggere, leggi la Bibbia. O vuoi restare per sempre così?

Non dissi niente.

Come aveva detto Carlo è importante l’ultima parola. Non tanto averla, ma capirla.

 

Un racconto di Martina Domenici

Illustrazione di Giulia Canetto

Lascia un commento