Caruso - Micello - Narrandom

Candela

Mia madre non sa nuotare, e ormai non imparerà più. A volte penso a come sarebbe stato bello avere una madre capace di tuffarsi. Un giorno le ho chiesto perché avesse tanta paura dell’acqua. «È successo da piccola», ha detto, e mentre lo diceva, ha chiuso gli occhi e ridotto le labbra a una linea, come se dovesse trattenere una commozione sicura.

A dire il vero, mia madre è sicura di tantissime cose e non c’è verso di smuoverla. Ad esempio è sicura che quest’anno le pere della campagna nasceranno tutte marce, e che di questi tempi bisogna risparmiare. È anche sicura di essere caduta, da piccola, nel pozzo del giardino di nonna, mentre andava in bici. «Se non ci fosse stato tuo nonno a riacciuffarmi, sarei morta lì dentro», e di nuovo chiude gli occhi e serra le labbra. Dice che, cadendo, era andata giù, appesantendosi in quell’acqua sporca. Mio nonno, che passava di lì, aveva visto galleggiare il suo vestitino a balze, che intanto era risalito in superficie, lasciando mia madre sul fondo, nuda come il gambo di un fiore di zucca. Poi, con forza, mio nonno l’aveva cacciata fuori, e lei, in preda a una tosse feroce e sputando manciate d’acqua, aveva ripreso a respirare.

Non posso biasimare mia madre per questo episodio, la biasimo per non aver imparato a nuotare.

 

Mia madre da giovane era molto bella e aveva un corpo sottile e luminoso, sembrava una candela, di quelle elettriche che si trovano in chiesa e si accendono con una moneta. C’è un’istantanea in bianco e nero, ormai scolorita e polverosa, che la ritrae stesa sugli scogli, mentre prende il sole. Indossa un bikini nero striminzito, i seni sono asciutti e ha le caviglie magrissime. La posa è da diva, la mano destra è gettata indietro, invece la sinistra si incunea sotto le reni, lasciando che la pancia si inarchi lievemente. Il sorriso è fiero, ancora slanciato.

Anche se non sa nuotare, sembra che possa farlo.

Trovo che la me di adesso somigli parecchio a quella donna in foto.

 

Spesso mia madre mi rinfaccia i chili in più, presi dopo avermi partorita. «Invece tua sorella è stata un angelo, un angelo», puntualizza sempre.

Devo ammettere che mi dispiace parecchio averla sgualcita, soprattutto se la colpa è solo mia, e per questo mi sono convinta che, a ragione, mi voglia meno bene.

Il fatto è che non saprei come unire la donna della foto e mia madre in una persona sola. È molto difficile credere che il tempo abbia rimaneggiato, come cera informe, le sue dimensioni, fino a renderla mia madre. Quando parlo di dimensioni, intendo quelle della sua pancia, delle sue cosce, e dei suoi seni, che io ho conosciuto così, ignorando che mia madre invece, in passato, è stata altro.

La donna che conosco io non sa nuotare e non imparerà mai, e questo l’ha sempre resa, ai miei occhi, una buona a nulla. Negli anni, vederla restare da sola, sugli scogli, mentre tutti noi facevamo il bagno, mi ha allontanato da lei, convincendomi che fosse una donna spaventata.

La donna che conosco io dice che l’acqua del mare porta sciagura, e di non spingermi troppo in là, ché è pericoloso.

La sua pancia è traballante come gelatina e piena di smagliature, e le bretelle del bikini stringono sulle scapole, fasciandole come salsicce. La mutanda è ampia e slargata, come se dovesse contenere un mucchio di cose.

 

Penso che mia madre, come tutti quanti, abbia un dolore dentro. L’estate scorsa mi è capitato di vederla radersi lì sotto, e lei si accartocciava, spostando l’ingombro della pancia ora da una parte, ora dall’altra. Sembrava affaticata e a ogni movimento doveva fermarsi e prendere fiato. Il sole le batteva sulla fronte e così, da vicino, mi è sembrata molto bella, con quel taglio cortissimo di capelli e i denti scheggiati e deboli. Mi è sembrato di rivedere la donna della foto.

A volte penso a come sarebbe stato andare a largo insieme, tuffarci dritte come candele e scendere giù. Invece il tempo l’ha sciolta, come se fosse sempre stata lei quella in balìa.

 

Qualche giorno dopo averla vista radersi, ha accettato di fare una gita in barca, insieme a degli amici di famiglia. A dire il vero, ha ripetuto più volte che se la stava facendo sotto, e ogni volta la voce sembrava meno ferma. Quando la barca è partita e ha preso velocità, lei ha sussultato, il suo corpo tremolava come una fiamma. Guardandola, ho pensato a quando si spegnerà e ho sentito un senso di sconforto. Finché il motore si è fatto calmo e abbiamo attraccato. Mia madre se n’è rimasta seduta, sembrava esausta. Muoversi al passo delle onde l’ha fatta sbiancare, perché era rigida e in tensione, perché dice che l’acqua porta sciagura e ci eravamo spinti già troppo in là. Le è venuto il mal di mare, che per lei è un male vero, mortale, come la peste, come tutte le cose che l’hanno paralizzata nella vita, trasformandosi in preoccupazioni.

E la verità è che anch’io ho paura. Ho paura di restare da sola, perché la verità è che si spegneranno tutti. Ce ne andremo tutti, perfino mia madre lo farà.

Ho paura di diventare come lei, così mi sforzo ogni volta, perché devo tenere a bada questa parte di me, perché quando arriverà la nausea, io non sarò come mia madre, sarò come quella donna in foto, perché mia madre ha ceduto, rassegnandosi alle maree che, se non sai correre e prenderle di petto, ti investono, lasciandoti annegare.

 

Un racconto di Sara Micello

Illustrazione di Maria Caruso

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