Le notti di cenere

Si fa la notte. Non appare dal cielo all’orizzonte, perché l’orizzonte è di cenere e offuscato dal colore infetto del sangue, ma si fa d’improvviso, con un impeto irreversibile, sicché dopo ogni notte pare non possa esserci una nuova alba. Si levano brezze da ogni direzione e nel loro incedere si scontrano con furiose battaglie invisibili che le fanno ululare come streghe furiose. La fattoria malata di fatiscenza scricchiola al vento forte, tanto che le pareti paiono possedute dagli spiriti della lunga notte: tremano le imposte e i vetri e i pavimenti. Nel sottotetto topi infestano, topi fuggono — li sento zampettare con gli artigli sull’assito come un esercito di zombie in fuga dall’aprirsi dell’inferno. Le brezze spingono la cenere dall’orizzonte. Si deposita su tutte le cose come una malattia, e le contamina: la cuccia del cane, morto da anni, con la catena spezzata e la ciotola in secca come i mari del mondo; il vecchio pneumatico allacciato alla quercia, che fungeva da altalena; la quercia stessa, misera pena. Di là di quanto i miei poveri occhi possano vedere, dev’essere esploso qualcosa di grosso. Forse il mondo intero. I miei campi di mais s’ammaleranno dei suoi resti, e così pure le galline nel recinto e i conigli nella garenna e qualunque vivente sia sopravvissuto al morbo colato dal cielo dalla prima coppa: sui corpi si formeranno croste e bubboni purulenti, bacheranno come frutti abbandonati sugli alberi. Non-c’è-scampo.

Turbini di cenere vorticano dalla terra scabra verso il cielo. L’aria è secca, piena dei resti di qualcosa che ha bruciato sino all’estinzione. Soffici spore di lignite svolazzano ovunque come le tempeste di sabbia marziane. Allorché la notte si fa e la cenere avanza, mi rendo conto di aver già visto tutto questo nelle predizioni che mi hanno reso pazzo. Il vetro dell’abbaino, in fronte al quale sono fermo a guardare, è pieno di cenere come neve durante la tempesta che per secoli ho solo immaginato.

– Rachel – gemo nello scalpiccio dei topi con un urlo che dilania il mio petto e crea, sopra i campi di mais, uno strappo di cielo dal quale le stelle mi ammiccano. – Perché sei andata nel bosco?

Esco di casa. Prima di farlo indosso un berretto da baseball e un vecchio pastrano nero, gli occhiali tondi che fanno sembrare i miei occhi giganteschi sotto le lenti, un fazzoletto per proteggere la bocca. La cenere mi attacca come uno sciame di vespe. L’aria ha un odore terribile, di terra cimiteriale. Ci sono milioni, miliardi, di piccoli fiocchi.

Mbare! – grida Hans di là dello steccato. La sua casa si sta infettando come tutto. Pure lui indossa il pastrano dei cacciatori, e avanza con la testa incassata, con la testa conficcata come dentro uno stecco. Somiglia a uno di quei pupazzi di plastilina che Rachel preparava nelle mattine della scuola, con animo fiero, e portava a me che ero suo padre e l’attendevo sotto il porticato sulla sedia dondolante con una birra nel pugno calloso, sporco e stanco dopo la notte tremenda a stringere bulloni e oliare macchinari, lambito dal calore ardente delle fornaci, in quell’immensa fattoria di ferro. – Mbare! – Hans mi raggiunge, è affannato. – Questa roba uccide?

Io annuisco.

– Annienta e soffoca. È così che finisce il mondo.

Sotto le suole degli stivali la nostra terra agonizza. Mi verrebbe voglia di aiutarla, ma chi aiuterà me, non appena sfilerò le dita dai guanti e affonderò nella sua corruzione. Sento che l’aria si riempie del suono degli organi e delle trombe distanti. Come nelle mie visioni. Le stelle cadono in quello squarcio di cielo e s’incendiano con striature lampeggianti di rosso, d’arancio, di giallo e violetto, infine, ogniqualvolta penetrano ciò che resta della nostra atmosfera.

– Che cosa faremo – domanda Hans, fiancheggiando il mio camminare.

Gli rispondo che non c’è niente da fare, perché questa è l’apocalisse; ma proprio in quel momento, mentre imbocco la via parallela ai campi di mais che conduce al bosco, mi accorgo che la strada è tutta un brulicare di uomini nei pastrani neri dei cacciatori, sembrano vermi, ma sono uomini maturi ai limiti dell’età in cui sia eticamente consentito a un uomo riprodurre – se solo dopo undici anni d’epidemia vi fosse ancora, in questa terra desolata, una sola donna per riprodurre: l’ultima era la mia piccola Rachel, che mai avrei dato in pegno per la salvezza dell’umanità anche fosse sopravvissuta al morbo.

I cacciatori si accodano a me e a Hans, come se tutti, nelle loro rachitiche stamberghe, stessero aspettando questo momento; pronti a ricominciare. Ma ricominciare cosa? Non c’è niente da trovare.

– Andiamo nel bosco?

Guardo Hans. I suoi occhi brillano sotto le sete con cui s’è avvolto la faccia per non respirare, non direttamente, le spore infettanti dei mali Pandoriani di cui l’aria è piena. I venti si scontrano e urlano. La cenere ci aggredisce come una belva viva e nevrotica. Il bosco sta già sbiancando; gli alberi si lamentano, non respirano, anche le foglie e l’erba, che pare sanguinare; gli steli del mais e del granturco sono afflosciati sotto il peso della corruzione, sarà una lunghissima notte, forse l’ultima.

Hans ancora mi guarda. Sta aspettando una risposta mentre avanziamo in fretta sull’agonia del mondo. Vorrei mandarlo al diavolo, assieme a tutti loro, poi mi viene in mente che forse è proprio dove stiamo andando sicché annuisco.

– Sì, andiamo nel bosco.

Forse ritroverò Rachel.

– Urrà! – dice forte Hans, e si volta verso la truppa di cacciatori che ci segue, tutti impastranati. – Si va nel bosco!

– Urrà! Urrà! Urrà! – rispondono i cacciatori, alzando e abbassando a ritmo i loro bastoni da rabdomanti d’anime.

Entriamo nel bosco che il mondo biancheggia come mari tempestosi sotto il sadico maestrale. La cenere fa una strana schiuma a contatto col terreno e con le cose, striscia a infestare tutto, presto anche i solidi tronchi. Ben presto il mondo è nettamente distinto in soli due colori: il rosso e il nero. Tutto il resto è cenere nella cui tempesta, in un muto patto di disperazione, noi uomini solitari abbiamo ricominciato a cacciare.

                                                                                              Un racconto di Matteo  Raimondi

                                                                                                     Illustrazione di Elena Grillone

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