Lanterna Cinese- Narrandom_ Blog di racconti

Solo un bagliore distante

Ricordati di lasciare sempre una luce accesa.

Era tutto lì, racchiuso in una frase incisa sulla lapide di un cimitero.

Da bambini Elisa e Diego facevano ogni sera lo stesso gioco.

Erano nati a tre mesi di distanza, separati solo dal giardino che divideva le loro abitazioni, in una graziosa stradina che si snodava fra le colline veronesi.

Lui, a sette anni, era un bambino leggermente in sovrappeso, timido e scoordinato, con gli occhi blu grandi e inclinati verso il basso che lo facevano sembrare perennemente triste o pensieroso.

Da grande sognava di fare l’astronauta, perché le stelle l’avevano affascinato fin dalla volta in cui era andato all’osservatorio e aveva visto il Carro dell’Orsa Maggiore, la Cintura di Orione e Cassiopea.

Lei, a sette anni, era minuta e curiosa, con le ginocchia sempre scorticate per via delle corse in biciletta o delle arrampicate sulla vecchia quercia piantata a metà delle due case, i cui rami si affacciavano sia sulla finestra della sua camera da letto che su quella di Diego.

Non le importava molto di cosa avrebbe fatto da grande, purché potesse viaggiare come faceva sua madre, un’archeologa che aveva visitato il globo in lungo e in largo a caccia di tesori, e poco importa se la maggior parte delle volte questi tesori si riducevano a qualche vasetto di terracotta. Viaggiare era più che sufficiente per essere felici, Elisa lo sapeva bene, dato che sua mamma lo era sempre di ritorno a casa.

Diego non considerava Elisa solo come la sua più cara amica: era la prima a difenderlo in ogni circostanza, a regalargli la sua merendina quando aveva fame e sua mamma gli rifilava solo una mela, a fargli copiare i compiti di storia quando non aveva voglia di farli, e non se la prendeva mai a male se lui preferiva guardarla dal basso invece che arrampicarsi con lei sull’albero.

Ma gli sforzi della bambina, che sembrava non avere paura di niente, non bastavano a proteggere Diego da Stefano, l’orribile bambino di quinta C che non perdeva occasione per spintonarlo nei corridoi o per rivolgergli gli insulti più sgradevoli.

A metà della seconda elementare, Diego iniziò ad essere vittima di terribili incubi che lo facevano svegliare nel cuore della notte sudato, con gli occhi pieni di lacrime e un grido trattenuto a stento per non svegliare i suoi.

Andò avanti per due mesi, ma nessuno sembrò accorgersi delle profonde occhiaie del bambino, della sua aria sciupata e del modo guardingo con cui si affacciava sui corridoi della scuola prima di percorrerli svelto.

A casa gli era proibito tenere la luce dell’abatjour accesa durante la notte, suo padre era stato chiaro: ormai era grande per avere paura, e poi le bollette non le pagava mica lui.

Elisa era l’unica ad intuire il malessere del suo amico e, alla fine, escogitò un modo per tranquillizzarlo. Diego doveva accendere e spegnere l’abatjour due volte se si sentiva un po’ angosciato e tre se era spaventato sul serio.

Nel primo caso lei accendeva la luce della sua abatjour per tutta la notte, visibile anche dalla stanza di Diego. Nel secondo caso, la bambina spalancava la finestra e saltava sul ramo più vicino cercando di non fare rumore e, usando l’albero come un ponte sospeso fra le due case, si lasciava cadere nella stanza del suo amico. Lì si fermava a dormire, stretti nello stesso lettino, finché la prima sveglia non trillava per tutta la stanza. Allora Elisa tornava a servirsi dell’albero per rientrare a casa sua.

Andò avanti così per una decina d’anni, non perché Diego avesse ancora paura del buio, ma perché i due avevano capito che insieme dormivano meglio, e che a volte per essere felici non occorreva compiere distanze immense, bastava solo avere il giusto albero a disposizione.

Crescendo, Diego capì di essere innamorato di Elisa, e lei di essere innamorata di lui, ma non se lo confessarono mai, per paura che l’altro non ricambiasse, o che quella complicità che li teneva svegli fino a tarda notte per chiacchierare di tutto, il modo in cui riuscivano quasi a leggersi nel pensiero, o il fatto che Elisa mangiasse tutte le olive nel piatto di Diego – perché a lui facevano schifo-, che tutte queste piccole cose potessero sparire o cambiare.

A sedici anni, la mamma di Elisa portò entrambi a Rio De Janeiro, per festeggiare un capodanno alternativo.

Elisa pianse allo scoccare della mezzanotte, seduta in riva al mare fra centinaia di sconosciuti, con il viso rivolto al cielo tappezzato di lanterne cinesi che ondeggiavano nella notte, prima di diventare lontani bagliori sfocati.

Diego le teneva la mano, ma non aveva alcuna voglia di guardare quello spettacolo sopra la sua testa, era stranamente affascinato dalle piccole scie di lacrime che solcavano le guance della ragazza, e intanto pensava che forse non aveva mai avuto veramente paura del buio: semplicemente ogni cosa, dalla più piccola alla più complicata, illuminata risultava più reale e definitiva, per sempre incasellata in una stanza precisa della sua mente, una che poteva visitare tutte le volte che ne aveva voglia.

«Sapevi che anticamente queste lanterne furono create a scopi bellici?», disse Diego, affondando i piedi nella sabbia fredda.

«Beh, è molto meglio l’uso che ne fanno i brasiliani! Ci appendono un foglietto con un desiderio, un po’ come facciamo noi con le stelle cadenti».

«E non ti ho ancora detto la parte più divertente!».

«Hai deciso di deprimermi? O ti stai vendicando perché non hai ancora visto la Croce del Sud?».

«Figurati se speravo di vederla con tutte queste luci artificiali».

«Quindi, a cos’altro servivano?».

«Per onorare i morti, Elisa».

Sei mesi dopo lei si sottopose al suo primo intervento chirurgico.

Le avevano diagnosticato una forma di tumore molto aggressiva al cervelletto. Sembrò reggere bene alla notizia, almeno fino a quando non le tagliarono via i lunghi capelli castani, allora iniziarono gli incubi.

Ogni notte Diego accendeva l’abatjour, ma non bastava mai. Lei rispondeva sempre accendendo e spegnendo la luce tre volte. A quel punto, Diego, sfidava la sua paura del vuoto, saltava sui rami dell’imponente quercia e percorreva il piccolo tratto che lo separava dalla finestra di lei.

A capodanno, Elisa domandò a Diego di accompagnarla sulla collina più alta delle Torricelle, e lui l’accontentò.

Da bambina scherzava sempre sul fatto che avrebbe vissuto fino a cent’anni, e solo a quel punto si sarebbe addormentata per sempre.

Comprò una lanterna per ogni anno che la separava da quel traguardo e trascorsero tutta la notte a farle volare, ad ognuna affidò un desiderio, ma erano tutti per lui: una vita lunga e felice, un bel lavoro, una bella casa, una ragazza speciale che l’avrebbe amato fino alla fine, dei figli, e tutte quelle piccole cose, come comprare un nuovo divano o visitare il Louvre per la prima volta,  sufficienti a scacciare la paura del buio.

Nel corso degli anni, Diego, li vide realizzarsi uno ad uno. La sua vita fu costellata di tante piccole luci, ma non dimenticò mai di lasciarne sempre una accesa durante la notte, non per paura, mai, lo faceva per lei, affinché sapesse di non essere sola, ovunque si trovasse.

Un racconto di Giovanna Giordano

Illustrazione di Elisa Inverardi

Giovanna Giordano

Giovanna nasce in padania da genitori terronici, dal nord ha imparato ad alcolizzarsi di vino, dal sud a mangiare come se non ci fosse un domani. Da piccola ha frequentato tutte le scuole cattoliche che Verona offriva, infatti poi è diventata atea. Da grande vuol far parte del fronte liberazione nani da giardino.

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