Lisarium

Stamattina, nel quartiere in cui da poco siamo tornati ad abitare, pochi uccellini splendono e il sole cinguetta e bla-bla. Mia moglie Rita in cucina prepara la colazione ai bambini svegli già dalle sette. La finestrina sul lavello, attraverso la grata, offre lo scorcio trasfigurato dall’usura quotidiana, come Rita, di un accesso alla metro. Giornata magnifica per camminare tra i palazzi, sotto le bandiere di Stato, in piazza del Parlamento… se potessi, in un giorno simile, divagherei, chiamerei il suono dello sciacquone che ho appena tirato sconfinamento o, in luogo di una confessione, Lisa. Lisa solo di facciata è una donna gelida. Sul balcone della mandibola non sembra si curi il verde, né che gialle sventolino le tende, e nessun fiore dentro: il suo prospetto frontale è come in perenne penombra, anche oggi col sole alto, fiero. La tettoia adunca del naso e il portone sfondato della bocca arcuata annunciano nel complesso notizie di un imminente crollo. Ma nell’atto politico dell’amore è proprio di questo che si tratta… sconfinare, invadere la fredda regione di un letto che non ci appartiene, saccheggiare una città nemica dalla topografia ignota.

Mentre finisco di bere il caffè, Rita mi carezza la guancia e io immagino la punta cava di un proiettile esplodere trapassandomi la tempia. Poi fa: «Dove corri così presto?».

Poso la tazzina: «Vedo Lisa».

«Bambini» li esorta lei, «andate un attimo di là».

Anche se Lisa non c’è più, almeno non come un tempo, le basta l’empietà di qualche torta stradina del centro perché la sua assenza scompaia. Ci rincontreremo nella muffa dei muri stonacati, vicini gli uni agli altri, nell’umidità asfittica che si arrampica certe sere dal Tevere fino ai vialoni, un tempo carichi soltanto d’eternità. Scenari a cui chi le ha progettato il davanti s’è certo ispirato, e tuttavia senza convinzione: guardando Lisa provo un’inedita, violenta forma di assoluto sconcerto per tanta che era stata la crudeltà di quegli architetti nell’accostare un viso così smorto all’espressione del suo culo, perfetta prospettiva centrale delle due chiese gemelle che solenni presidiano Piazza del Popolo.

«Lisa?». Rita ha una biografia dello sconforto a cerchiarle gli occhi.

 «Credevo l’avessimo archiviata…» ― ché quando guardi qualcuno come mia moglie mi guarda adesso, il silenzio è l’unica via per guadagnarsi, se esiste, una certa dignità nella colpa.  Ma a lei, che vuol sapere chi sono, cosa faccio, dove vado, ciò che interessa realmente sono le mie parole. Insiste: «Parla…!». Ciò che non sa però è il significato che non legge attraverso i miei significanti. Queste spesse mura di cinta che, circoscrivendo il centro di ogni essere umano, lo relegano nel vizio di forma dell’inconoscibilità. E perciò, della mia prematura separazione coniugale, del distacco polare che ho messo tra me e i nostri figli, tra me e l’esistenza stessa, lei non sa niente di più di ciò che io le dico. «Avanti» fa.

Vorrei dirti, Rita: ieri sera ho rivisto Lisa. Ho fatto un giro dentro di lei. Ha una planimetria urbana schiava di certe geometrie artificiali che acuiscono conflitti di viabilità e invidie familiari. Dai tombini, mentre camminavo, ha sollevato un’esposizione verbale di taglio, cinica e velenosa, come per proteggersi dalle accuse per un delitto che non riteneva d’aver commesso. Le insegne, gli scoli fognari, hanno preso a comunicarmi con violenza la necessità di emigrare immediatamente dal tempo. Di uscire dalla storia. Di chiudere coi mercati rionali e quelli finanziari. Ed è lì che ho avvertito l’incipit del prolasso… se non fosse sempre instancabile lavoro, il lavorio di una civiltà… se non fosse incessantemente dovere, questa vita…. Da quel momento, non ho voluto che trovare una tana, un buco, da qualche parte, dentro Lisa, per riposarmi. Ma il rene è collassato, a Repubblica, nella fontana della vescica e, con lui, l’articolazione motoria di imbizzarriti tram-bus-automobili s’è trasformata in un’aritmia imperiale di quella vena cava che è via dei Fori. Le statue di Lisa sono venute giù dai basamenti, dalle loro pose porno-storiografiche, perché sorrette esclusivamente da due piedini bianchi ed erotici, con unghie sempre tirate a nero, inadatti agli sfaceli di simili terremoti emotivi. Lisa si è fermata un momento, davanti a me, e il mondo è rimasto in equilibrio sulla cruna di un ago: sotto allo stomaco ho visto un palazzo alto diversi piani, in cui si sono organizzati spesso festini a tema sensuale, ma ieri sera… quasi tutti gli appartamenti sono stati presi in affitto da sentimenti sfumati di rabbia: sprezzante ho detto a Lisa che avrei abbandonato i miei figli, la mia casa, e che avrei piantato te, Rita, donna raggelata di dolcezza. Lei mi ha interrogato con lo sguardo. Le ho ribadito che il futuro non ci sarebbe appartenuto, che l’avrei respinta in quanto parvenza deteriore, istanza d’illusione. La vita in me s’era inabissata.

Questo vorrei dirti, Rita. Invece ti dico: «Stamattina esco. Stasera vedrò Lisa per l’ultima volta. Poi andrò nella sua farmacia e prenderò i sonniferi che lei mi ha messo da parte».

Un racconto di Vincenzo Montisano

Illustrazione di Chiara Zucchelli

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